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Contro Ogni Nemico
Jack Mars


Un Thriller Della Serie di Luke Stone #4
Uno dei migliori thriller che abbia letto quest’anno. La trama è intelligente, e aggancia dal primo momento. L’autore ha fatto un lavoro superbo nel creare una serie di personaggi pienamente sviluppati e davvero interessanti. Non vedo l’ora di leggere il seguito. Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (su A ogni costo) CONTRO OGNI NEMICO è il libro 4 della serie thriller best-seller di Luke Stone, che comincia con A OGNI COSTO (libro 1), un libro scaricabile gratuitamente con più di 250 recensioni a cinque stelle! Da una base NATO situata in Europa è stato rubato un piccolo arsenale di armi nucleari statunitensi. Il mondo si danna per cercare di capire chi siano i colpevoli e quale sia il loro obiettivo – e per fermarli prima che scatenino l’inferno sull’umanità. Con poche ore a disposizione prima che sia troppo tardi, la presidente non ha altra scelta che chiamare Luke Stone, l’ex capo di una squadra paramilitare d’élite dell’FBI. Dato che sta finalmente cercando di rimettere ordine nella sua vecchia vita, e che deve affrontare devastanti notizie sul fronte familiare, Luke non vuole il lavoro. Ma con la nuova donna presidente eletta alla disperata ricerca di aiuto, capisce di non poterle voltare le spalle. Nella mozzafiato caccia del gatto col topo che segue, Luke, Ed e la sua ex squadra dovranno essere più audaci, e infrangere più regole, di prima. Con il destino del mondo a rischio, Luke si inoltra nella torbida nebbia della guerra e dello spionaggio, e scopre che il colpevole non è chi pensa lui, alla fine. Thriller politico con azione non-stop, ambientazioni internazionali drammatiche e suspense mozzafiato, CONTRO OGNI NEMICO è il libro 4 della serie best-seller e acclamata dalla critica di Luke Stone, un’esplosiva nuova serie che vi costringerà a girare pagina fino a tarda notte. Il libro 5 della serie di Luke Stone sarà presto disponibile.







C O N T R O O G N I N E M I C O



(UN THRILLER DI LUKE STONE – LIBRO 4)



J A C K M A R S


Jack Mars



Jack Mars è l’autore della serie thriller best-seller di LUKE STONE, che include i thriller di suspense A OGNI COSTO (libro #1), IL GIURAMENTO (libro #2), SALA OPERATIVA (libro #3), CONTRO OGNI NEMICO (libro #4), OPERAZIONE PRESIDENTE (libro #5), e IL NOSTRO SACRO ONORE (libro #6).



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Copyright © 2016 di Jack Mars. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato unicamente per il suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright Orhan Cam, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.


I LIBRI DI JACK MARS



I THRILLER DELLA SERIE DI LUKE STONE



A OGNI COSTO (Libro #1)

IL GIURAMENTO (Libro #2)

SALA OPERATIVA (Libro #3)

CONTRO OGNI NEMICO (Libro #4)

OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro #5)

IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro #6)





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INDICE

CAPITOLO UNO (#uc5c9e496-dff0-51cd-8d3d-b47ee38ba4d0)

CAPITOLO DUE (#u99d1ad1a-3be2-5a5d-b09c-f5675a5ecdb9)

CAPITOLO TRE (#ua16b997d-b754-5172-b3a5-3f497aaf6bd4)

CAPITOLO QUATTRO (#uc5cc8826-f199-55f8-8e4d-9783c50c4056)

CAPITOLO CINQUE (#u22c365ba-6ab0-55ef-aa18-ec7e9d78c7d8)

CAPITOLO SEI (#u2ba96710-7674-5e8a-bc89-1e97d761ef1c)

CAPITOLO SETTE (#u4dfa42b8-9d3e-503f-8096-bf5af2205f5a)

CAPITOLO OTTO (#u13717b61-6873-5543-b22e-91e9958aa043)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIDUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTITRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTIQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTICINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTISETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTINOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTATRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTAQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTACINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTASETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TRENTANOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTA (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTUNO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTADUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTATRÉ (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTAQUATTRO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTACINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUARANTASEI (#litres_trial_promo)




CAPITOLO UNO


16 ottobre

5:25 ora legale delle Montagne Rocciose

Marble Canyon

Parco nazionale del Grand Canyon, Arizona



“Arrivano da tutte le parti!”

Luke stava cercando di sopravvivere fino alla prima luce del giorno, ma il sole si rifiutava di sorgere. Faceva freddo, e non aveva addosso la maglietta. Se l’era strappata via nella calura del combattimento. Non gli rimanevano più munizioni.

Coperti dal turbante, i barbuti combattenti talebani si riversavano giù dai muri dell’avamposto. Attorno a lui, uomini urlavano.

Luke gettò il fucile vuoto ed estrasse la pistola. Sparò giù nella trincea dalla sua posizione – era invasa da nemici. Una fila di nemici correva nella sua direzione. Altri arrivavano in scivolata, cadendo, scavalcando il muro.

Dov’erano i suoi? C’era ancora qualcuno di vivo?

Uccise l’uomo più vicino con un colpo in viso. La testa esplose come un pomodoro. Afferrò l’uomo dalla tunica e lo sollevò come scudo. L’uomo senza testa era leggero, e a Luke saliva la furia con l’adrenalina – era come se il cadavere fosse un vestito vuoto.

Uccise quattro uomini con quattro spari. ContinuГІ a fare fuoco.

Poi finì i proiettili. Di nuovo.

Un talebano caricò con un AK-47, la baionetta attaccata. Luke spinse il cadavere verso di lui, poi gettò l’arma come un tomahawk. Rimbalzò contro la testa dell’uomo, distraendolo per un secondo. Luke quel tempo lo usò. Avanzò all’attacco, scivolando lungo il margine della baionetta. Immerse due dita in profondità negli occhi dell’uomo, e tirò.

L’uomo urlò. Le mani gli andarono alla faccia. Adesso Luke aveva l’AK. Baionettò il nemico al petto, due, tre, quattro volte. Spinse in profondità.

L’uomo esalò l’ultimo respiro proprio in faccia a Luke.

Le mani di Luke vagarono per il corpo dell’uomo. Il cadavere fresco aveva una granata nella tasca sul petto. Luke la prese, la innescò e la gettò oltre la fortificazione verso le orde in arrivo.

Colpì il ponte.

BUUUM.

L’esplosione arrivò giusto lì, spruzzando terra e roccia e sangue e ossa. Il muro di sacchetti di sabbia per metà collassò su di lui.

Luke strisciò fino a mettersi in piedi, ora sordo, le orecchie che fischiavano. Controllò l’AK. Vuoto. Ma aveva ancora la baionetta.

“Venite, bastardi!” urlò. “Venite!”

Dal muro arrivarono altri uomini, e lui li infilzГІ con foga. Li lacerГІ e strappГІ a mani nude. SparГІ ai nemici con le loro stesse armi.

A un certo punto sorse il sole, ma non portava calore. Il combattimento in qualche modo era terminato – non riusciva a ricordare quando, o come, si fosse concluso. Il terreno era accidentato, e duro. C’erano corpi morti ovunque. Scheletrici uomini con la barba giacevano dappertutto, con gli occhi spalancati e fissi.

Nelle vicinanze, ne scorse uno strisciare giù per la collina, trascinandosi dietro una riga di sangue come la scia di melma che segue una lumaca. Doveva assolutamente uscire di lì e uccidere quell’uomo, ma non voleva rischiare di ritrovarsi all’aperto.

Luke aveva il petto rosso. Era pregno del sangue dell’uomo morto. Gli tremava il corpo dalla fame, e dalla stanchezza. Fissò le montagne circostanti, appena resesi visibili.

Quanti altri ce n’erano là fuori? Tra quanto sarebbero arrivati?

Martinez era disteso sulla schiena lì vicino, basso nella trincea. Stava piangendo. Non riusciva a muovere le gambe. Ne aveva abbastanza. Voleva morire. “Stone,” disse. “Ehi, Stone. Ehi! Uccidimi, cavolo. Uccidimi. Ehi, Stone! Ascoltami!”

Luke era intorpidito. Non aveva pensieri sulle gambe di Martinez, nГ© sul futuro di Martinez. Era solo stanco di sentire i lamenti, di Martinez.

“Ti ucciderei volentieri, Martinez, anche solo perché frigni così. Ma sono senza munizioni. Quindi sii uomo… okay?”

Nelle vicinanze, Murphy sedeva su una roccia sporgente, a fissare nel vuoto. Non cercava neanche di coprirsi.

“Murph! Scendi di lì. Vuoi che un cecchino ti ficchi un proiettile in testa?”

Murphy si voltò e guardò Luke. I suoi occhi… non c’erano più. Scosse la testa. Gli sfuggì un sospiro. Sembrò quasi una risata. Restò proprio dov’era.

Se fossero arrivati altri talebani, erano fregati. A nessuno di quei ragazzi era rimasta altra forza per combattere, e l’unica arma che aveva ancora Stone era la baionetta curva che teneva in mano. Per un attimo pensò pigramente di setacciare alcuni dei morti in cerca di armi. Non sapeva se aveva ancora la forza di stare in piedi. Magari avrebbe dovuto strisciare.

Mentre guardava, lontano nel cielo comparve una fila di insetti neri. Capì che cosa fossero in un istante. Elicotteri. Elicotteri militari degli Stati Uniti, probabilmente dei Black Hawk. Stava arrivando la cavalleria. Luke non la sentiva come una cosa buona, né cattiva. Non sentiva niente. Il vuoto era un rischio occupazionale. Non sentiva niente di niente…

Luke fu svegliato dallo squillo del telefono. Rimase steso lì e sbatté le palpebre.

CercГІ di orientarsi. Si trovava in una tenda, si accorse, in fondo al Grand Canyon.

Si era appena prima dell’alba, e si trovava nella tenda che condivideva con suo figlio, Gunner. Fissò la notte buia, ascoltando i rumori del profondo respiro di suo figlio lì vicino.

Il telefono continuava a suonare.

Gli vibrava contro la gamba, e faceva il fastidioso ronzio dei telefonini impostati sulla vibrazione. Non voleva svegliare Gunner, ma quella probabilmente era una telefonata a cui doveva rispondere. Pochissime persone avevano quel numero, e si trattava di persone che non avrebbero chiamato solo per fare quattro chiacchiere.

Guardò l’orologio: le cinque e trenta del mattino.

Luke abbassò la zip della tenda, scivolò fuori, poi la risollevò. Nelle vicinanze, nella prima pallida luce della giornata che si raccoglieva, Luke vide le altre due tende – in una Ed Newsam, nell’altra Mark Swann. I residui del fuoco della sera precedente si trovavano nel cerchio di pietre al centro del campo – alcune braci brillavano ancora di rosso.

L’aria era fredda e frizzante – Luke indossava solo i boxer e una t-shirt. Gli venne la pelle d’oca sulle braccia e sulle gambe. Ficcò i piedi in un paio di sandali e andò verso il fiume, oltre al punto in cui era legato il gommone. Voleva allontanarsi dal campo abbastanza da non svegliare nessuno.

Si mise a sedere su una grossa roccia e osservò le pareti che si innalzavano del canyon. Appena sotto di lui, anche se riusciva a vederla a malapena, c’era il rumore del gocciolio dell’acqua. A seguire il corso del fiume, forse mezzo miglio più in giù, riusciva a udire il trambusto della successiva serie di rapide.

Guardò il telefono. Conosceva il numero a memoria. Era Becca. Probabilmente l’ultima persona di cui voleva avere notizie in quel momento. Aveva tenuto Gunner per cinque giorni, il che era assolutamente legale stando al loro accordo. Sì, Gunner in quel periodo di tempo non era andato a scuola, ma il ragazzino era una specie di genio – si parlava di fargli saltare delle classi, non che stesse rimanendo indietro.

Secondo Luke, portarlo fuori nella natura selvaggia, a godersela e a mettersi alla prova sia fisicamente che mentalmente, gli faceva bene – e probabilmente era più importante di qualsiasi cosa potesse combinare a casa. I ragazzini di oggi trascorrevano molto tempo a fissare degli schermi. Ci stava anche – quegli schermi erano strumenti potenti – ma era il caso di limitarli a ciò. Di non permettere che prendessero il posto della famiglia, della fisicità, del divertimento o dell’immaginazione. Di non fingere che l’avventura vera, o persino l’esperienza vera, avessero luogo all’interno di un computer.

La richiamГІ, la mente in allerta, perГІ aperta. Qualsiasi gioco stesse cercando di fare, lui sarebbe rimasto calmo e ragionevole quanto poteva.

Il telefono squillГІ una volta.

“Luke?”

“Ciao, Becca,” disse, la voce bassa e amichevole, come se fosse la cosa più normale del mondo richiamare qualcuno prima dell’alba. “Come stai?”

“Sto bene,” disse. I discorsi che faceva con lui erano sbrigativi, tesi. La vita con lei era finita – Luke questo lo riconosceva. Ma la vita con suo figlio era appena cominciata, ed era saldo nella convinzione che avrebbe superato qualsiasi ostacolo Becca avesse potuto mettergli tra i piedi.

AspettГІ.

“Cosa sta facendo Gunner?” disse.

“Dorme. Qui è piuttosto presto. Non è ancora sorto il sole, quasi.”

“Vero,” disse. “Mi ero dimenticata del fuso orario.”

“Non ti preoccupare,” disse. “Comunque ero sveglio.” Fece una pausa di qualche secondo. A est stava apparendo il primo barlume di sole vero, un raggio di luce che faceva capolino dall’orlo del canyon e giocava sulla parete della scogliera a ovest, colorandosi di rosa e arancione.

“Allora, che posso fare per te?”

Non esitò. “Mi serve che Gunner torni a casa subito.”

“Becca…”

“Non metterti a litigare su questo, Luke. Lo sai che il giudice non farà una piega. Un agente delle operazioni speciali con una diagnosi da disturbo da stress post-traumatico e un passato di violenze vuole portare il giovanissimo figlio fuori per avventure che, tra l’altro, gli fanno perdere intere settimane di scuola. Non riesco neanche a credere di aver accettato la cosa. Ero così distratta che…”

Lui la interruppe. “Becca, siamo nel Grand Canyon. Stiamo facendo rafting. Ti rendi conto della cosa, vero? A meno che qui non atterri un elicottero per venirci a prendere, probabilmente siamo a tre giorni dal South Rim. Poi una notte lì, e un’intera giornata di macchina fino a Phoenix. Il che mi pare giusto, perché a quel che ricordo i biglietti aerei sono per il ventidue. E, tra l’altro, questa diagnosi da stress post-traumatico non è vera. Non c’è mai stata. Nessun dottore l’ha mai neanche insinuato. È solo una cosa che ti sei costruita tu nella tua…”

“Luke, ho il cancro.”

Questo lo bloccò. Ultimamente Becca era stata più agitata di quanto l’avesse mai vista. Ovviamente se n’era accorto, ma per lo più aveva ignorato la cosa. Era tipico di lei, e della quantità di pressione che si addossava. Lei era un caso da stress di classe A. Ma questo era diverso.

A Luke si inumidirono gli occhi, e gli si formò un grosso nodo in gola. Poteva essere vero? Qualsiasi cosa fosse accaduta tra loro, quella era la donna di cui si era innamorato. Quella era la donna che aveva portato in grembo suo figlio. Allo stesso tempo, l’aveva amata più di chiunque altro al mondo, sicuramente più di quanto avesse amato se stesso.

“Gesù, Becca. Mi dispiace tanto. Quando è successo?”

“Sono stata male tutta l’estate. Ho perso peso. All’inizio non era chissà che, ma poi è diventata una quantità di peso incredibile. Pensavo che fosse tutta ansia, tutto ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo anno – il rapimento, l’incidente alla metro, tutto il tempo in cui sei stato via. Ma le cose si sono calmate molto, e il malessere non se ne andava. Sono andata a fare qualche test un paio di settimane fa. Ho avuto la nausea. Non volevo dirtelo finché non ne avessi saputo di più. Adesso ne so di più. Ieri ho visto il mio medico, e mi ha detto tutto.”

“Cos’è?” disse, anche se non era sicuro di voler sentire la risposta.

“È al pancreas,” disse, forse sganciando la peggiore bomba che lui potesse immaginare. “Quarto stadio. Luke, è già metastatizzato. Ce l’ho nel colon, nel cervello. Ce l’ho nelle ossa…” La voce le svanì, e lui la udì singhiozzare a duemila miglia di distanza.

“Ho pianto tutta la notte,” disse con voce rotta. “Pare che non riesca a smettere.”

Per quanto stesse male, Luke scoprì che i suoi pensieri improvvisamente non erano con lei – erano con Gunner. “Quanto, ancora?” disse. “Ti hanno dato un arco temporale?”

“Tre mesi,” disse Becca. “Forse sei. La dottoressa mi ha detto di non farci affidamento. Molta gente muore molto velocemente. A volte c’è un miracolo e il paziente continua a vivere, indefinitamente. In ogni caso, mi ha detto di sistemare le mie cose.”

Fece una pausa. “Luke, ho tanta paura.”

Annuì. “Lo so. Saremo lì il prima possibile. A Gunner non lo dico.”

“Bene. Non voglio che lo faccia tu. Possiamo dirglielo insieme.”

“Okay,” disse Luke. “A presto. Mi dispiace davvero.”

Riappendere fu strano. Se solo non avessero litigato per tutti quei mesi. Se solo lei non gli fosse stata così ostile. Se quelle cose non fossero accadute, forse sarebbe riuscito a trovare il modo di confortarla, anche da così lontano. Si era indurito nei suoi confronti, e non sapeva se gli fosse rimasta della tenerezza.

Rimase seduto sulla roccia per molti minuti. La luce cominciò a riempire il cielo. Non si lasciò andare ai bei ricordi che aveva con lei. Non rivisse tutte le discussioni che avevano avuto in quell’ultimo anno, né a quanto feroce e trincerata nelle proprie posizioni fosse stata. Aveva la mente vuota. Meglio così. Doveva andarsene da quel canyon, e doveva informare Ed e Swann che lui e Gunner se ne stavano andando.

Lasciò la roccia e si avviò verso il campo. Ed era sveglio e accucciato davanti al fuoco. Lo aveva riacceso e aveva messo su del caffè. Era senza maglietta, e non indossava nient’altro che un paio di succinti boxer rossi e le ciabatte. Il suo corpo era uno spesso incresparsi di muscoli e di filamentose vene, a malapena un’oncia di grasso in tutto – sembrava un lottatore di arti marziali sul punto di entrare nella gabbia. Osservò Luke avvicinarsi, poi gli indicò l’ovest.

LaggiГ№, il cielo era ancora blu cobalto, la notte in ritiro, scacciata dalla luce che veniva da oriente. Sulla cima, le torreggianti pareti del canyon adesso erano accese da un frammento di sole che lanciava le sue striature in fiamme di rosso, rosa, giallo e arancio.

“È bello, cavolo,” disse Ed.

“Ed,” disse Luke. “Ho brutte notizie.”




CAPITOLO DUE


21:15 tempo medio di Greenwich (16:15 ora legale orientale)

Quartiere di Molenbeek

Bruxelles, Belgio



Il magro sapeva parlare olandese.

“Ga weg,” disse sottovoce. Vattene.

Non si chiamava Jamal. Ma quello era il nome che a volte dava alle persone, e il nome con cui molta, molta gente era finita a conoscerlo. La maggior parte della gente lo chiamava Jamal. Alcuni lo chiamavano lo Spettro.

Se ne stava nell’ombra vicino a un bidone della spazzatura traboccante, appena dentro a una stretta strada di ciottoli, a fumare una sigaretta osservando una macchina della polizia parcheggiata sulla via principale. La stradina nella quale si trovava era poco più di un vicolo, e standosene discosto nell’ombra si sentiva sicuro che nessuno potesse vederlo. I viali e i marciapiedi e i vicoli vuoti dei famigerati bassifondi musulmani erano bagnati da una fitta pioggia gelida che aveva smesso di scendere forse una decina di minuti prima.

Quel posto era una cittГ  fantasma, quella notte.

Sul viale, l’auto della polizia si scostò dal marciapiede e si immise silenziosamente in strada. Non c’era altro traffico.

Una punta di agitazione – era quasi paura – percorse il corpo di Jamal mentre guardava la polizia. Non avevano ragione di infastidirlo. Non stava infrangendo nessuna legge. Era un uomo ben vestito in abito scuro e scarpe di pelle italiane, con il viso ben rasato. Poteva essere un uomo d’affari, o il proprietario di quei bassi caseggiati tutto intorno a lui. Non era il tipo che la polizia casualmente fermava e perquisiva. Eppure Jamal era già caduto nelle mani delle autorità in passato – non lì in Belgio, ma in altri posti. Erano state esperienze sgradevoli, per usare un eufemismo. Una volta aveva trascorso dodici ore ad ascoltarsi urlare di agonia.

Scosse il capo per scacciare quei pensieri oscuri, finì la sigaretta in tre profondi tiri, ignorò il bidone della spazzatura e lanciò il mozzicone a terra. Si voltò per percorrere il vicolo. Superò un cartello rotondo e rosso con una striscia bianca orizzontale – VIETATO L’ACCESSO. La strada era troppo stretta per il traffico automobilistico. Se la polizia avesse improvvisamente deciso di volerlo inseguire, sarebbe stata costretta a muoversi a piedi. Oppure a fare un giro di molti isolati. Per quando fossero tornati, lui non ci sarebbe stato più.

Dopo cinquanta metri, svoltò rapidamente e aprì con la chiave l’entrata di un edificio particolarmente fatiscente. Salì tre strette rampe finché le scale non morirono su una spessa porta rinforzata in acciaio. Le scale erano vecchie, fatte di legno e assurdamente contorte. L’intera rampa sembrava attorcigliarsi di qua e di là come una caramella toffee, dando la sensazione della casa dei divertimenti di un luna park.

Jamal fece il pugno e batté contro la porta pesante, e i colpi arrivarono secondo un’attenta sequenza:

BANG-BANG. BANG-BANG.

Si fermГІ per qualche secondo.

BANG.

Si aprì uno spioncino e vi apparve un occhio. L’uomo dall’altra parte grugnì, verificando chi fosse. Jamal ascoltò la guardia girare chiavi nelle serrature, poi rimuovere la sbarra in acciaio incuneata al pavimento sul fondo della porta. Per la polizia sarebbe stato molto difficile entrare in quell’appartamento, se i loro sospetti mai vi fossero caduti sopra.

“As salaam alaikum,” disse Jamal entrando.

“Wa alailkum salaam,” disse l’uomo che aveva aperto la porta. Era alto e massiccio. Indossava una lercia t-shirt senza maniche, pantaloni da lavoro e stivali. Una folta barba mal tenuta gli copriva la faccia, andando incontro alla massa di capelli neri e ricci del cuoio capelluto. Aveva gli occhi spenti. Era tutto ciò che l’uomo magro non era.

“Come sembrano messi?” disse Jamal in francese.

L’uomo grosso fece spallucce. “Bene, penso.”

Jamal attraversò una tenda di perline, percorse un breve corridoio ed entrò in una stanza piccola – che sarebbe stata un soggiorno se quel posto fosse stato occupato da una famiglia. La squallida stanza era piena di uomini giovani, tutti con addosso t-shirt, magliette delle loro squadre di calcio europee preferite, pantaloni della tuta e sneakers. Faceva caldo ed era umido nella stanza, forse per la prossimità di tutti quei corpi in uno spazio ristretto. Lì dentro sapeva da calzini sudati insieme a odore di corpi.

Nel centro della stanza, su un ampio tavolo di legno, si trovava un dispositivo fatto d’argento a forma di proiettile. Era lungo circa un metro e largo meno di mezzo metro. Jamal aveva trascorso del tempo in Germania e in Austria, e quel dispositivo gli ricordava un piccolo fusto di birra. In realtà tranne che per il peso – era piuttosto leggero – era una replica molto, molto buona di una testata nucleare americana W80.

Due giovani erano al tavolo, mentre gli altri giravano intorno e osservavano. Uno se ne stava in piedi davanti a un piccolo laptop montato all’interno di una valigia d’acciaio. La valigia aveva un pannello che correva lungo il laptop – c’erano due interruttori, due luci al LED (una rossa e una verde) e un quadrante costruiti nel pannello. Un cavo andava dalla valigia a un altro pannello lungo il lato della testata. L’intero dispositivo – la valigia e il laptop in essa contenuto – erano conosciuti come un UC 1583. Era un dispositivo progettato per un unico compito – comunicare con un’arma nucleare.

Il secondo uomo era curvo su una busta bianca sul tavolo. Portava un costoso microscopio digitale sull’occhio, e lentamente esaminava la busta, in cerca di ciò che, lo sapeva, doveva esserci – un minuscolo puntino, non più grande di quello che viene posto alla fine di una frase, nel quale era incorporato il codice che avrebbe armato e attivato la testata.

Jamal si avvicinГІ per guardare.

Il giovane con il microscopio lentamente esaminava la busta. Ogni qualche secondo si copriva il microscopio con la mano e dava un’occhiata su una scala maggiore con l’occhio scoperto, in cerca di macchie d’inchiostro, imperfezioni, di qualsiasi puntino probabilmente sospetto. Poi si rituffava nel lavoro col microscopio.

“Aspettate,” sussurrò sottovoce. “Aspettate…”

“Dai,” disse il suo partner con un’aria di impazienza nella voce. Venivano giudicati non solo per l’accuratezza, ma per le tempistiche. Quando fosse giunto il loro momento, sarebbero stati costretti ad agire molto rapidamente.

“Ce l’ho.”

Adesso alle strette c’era il partner. A memoria, il giovane digitò una sequenza che abilitava il laptop ad accettare un codice di armamento. Gli tremavano le mani. Fu abbastanza nervoso da pasticciare la sequenza al primo tentativo, cancellare, e ricominciare da capo.

“Okay,” disse. “Dimmi.”

Molto lentamente e chiaramente, l’uomo col microscopio lesse una sequenza di dodici numeri. L’altro digitò ogni numero a mano a mano che veniva detto. Dopo dodici, il primo disse “Finito.”

Adesso l’uomo al laptop passò per un’altra breve sequenza, azionò i due interruttori e girò la manopola. La luce al LED verde sul pannello si accese.

Il giovane sorrise e si voltГІ verso il suo istruttore.

“Armato e pronto al lancio,” disse. “Se Dio vuole.”

Anche Jamal sorrise. Lì lui era un osservatore – era venuto a vedere i progressi delle reclute. Erano credenti veri che si preparavano per quella che probabilmente era una missione suicida. Se i codici venivano inseriti erroneamente, le testate potevano semplicemente spegnersi – ma potevano anche autodistruggersi, diffondendo una letale nuvola radioattiva e uccidendo chiunque nelle vicinanze.

Nessuno era sicuro di cosa sarebbe accaduto nell’eventualità di un codice sbagliato. Erano tutte voci e speculazioni. Gli americani tenevano ben taciuti quei segreti. Ma non aveva importanza. Quei giovani erano disposti a morire, e probabilmente era quello che avrebbero fatto. A prescindere dai codici, quando gli Stati Uniti avrebbero scoperto che le loro preziose armi nucleari erano state rubate, non avrebbero risposto con gentilezza. No. La bestia gigante si sarebbe scatenata, i tentacoli in volo, a distruggere qualsiasi cosa sul suo cammino.

Jamal annuì e recitò una silenziosa preghiera di ringraziamento. Era stato un lavoraccio mettere insieme quel progetto. Avevano i mujaheddin necessari – comunque i giovani disposti a morire per la fede erano facili da acquisire.

Gli altri elementi erano più difficili. Presto avrebbero avuto le piattaforme di lancio e i missili – Jamal se ne sarebbe occupato lui stesso. Erano stati promessi i codici, ed era sicuro che li avrebbe ricevuti come descritto. Poi tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno sarebbero state le testate stesse.

E ben presto, se quello era il volere di Allah, avrebbero avuto anche quelle.




CAPITOLO TRE


19 ottobre

13:15 ora legale orientale

Contea di Fairfax, Virginia – sobborghi di Washington, DC



Luke aveva affittato un elicottero per andarsene dal canyon insieme a Gunner. Era riuscito a rimediare un nuovo volo, e aveva guidato come un pazzo per arrivare a Phoenix in tempo per prendere l’aereo. Per tutto il tempo aveva aggirato le domande di Gunner in merito alla loro brusca partenza.

“Tua mamma ti vuole a casa, Mostriciattolo. Le manchi, e non vuole che salti così tanti giorni di scuola.”

Sul sedile del passeggero, con l’autostrada che sfrecciava fuori dal finestrino, Luke vedeva le antenne di Gunner contorcersi come impazzite. Era un ragazzino intelligente. Stava già cominciando a capire quando le persone mentivano. Luke odiava – odiava! – essere tra i primi a farsi beccare da Gunner.

“Pensavo che avessi sistemato tutto con la mamma prima che partissimo.”

“E l’ho fatto,” disse Luke con un’alzata di spalle. “Ma le cose sono cambiate. Senti, ne parliamo quando arriviamo, okay?”

“Okay, papà.”

Ma Luke lo capiva che niente era okay. Ben presto sarebbe stato molto meno okay.

Adesso, due giorni dopo, eccolo seduto sul grande e sontuoso sofГ  del soggiorno della sua ex casa. Gunner era a scuola.

Luke guardò la stanza. Una volta lui e Becca avevano avuto una vita fantastica, lì. Era una casa bellissima, moderna, come uscita da una rivista di architettura. Il soggiorno, con le sue finestre che andavano dal pavimento al soffitto, era come una scatola di vetro. Si immaginò sotto Natale – seduti in quella sconvolgente stanza infossata, l’albero nell’angolo, il caminetto acceso, la neve che cadeva tutt’intorno, come se fossero fuori, quando invece erano dentro, caldi e comodi.

Dio, che bello. Ma quei giorni se n’erano andati.

Becca si agitava frenetica, puliva, spolverava, metteva via varie cose. A un certo punto della conversazione, aveva preso l’aspirapolvere dall’armadio e l’aveva fatto partire. Si trovava in un pessimo stato psicologico. Lui aveva cercato di abbracciarla appena arrivato, ma lei si era fatta di legno, le braccia sui fianchi.

“Ti avevo superato, lo sapevi?” disse adesso. “Ero pronta ad andare avanti con la mia vita. Sono anche uscita per qualche caffè con qualcuno mentre Gunner era con te, quest’estate. E perché no? Sono ancora giovane, giusto?”

Scosse la testa amaramente. Luke non disse nulla. Che cosa c’era da dire?

“Vuoi sapere una cosa su di te, Luke? Il primo con cui sono uscita era un insegnante in vacanza, un tipo carino, e mi ha chiesto che lavoro fai. Gli ho detto la verità. Oh, il mio ex marito è una specie di assassino segreto del governo. È stato nella Delta Force. E sai cos’è successo dopo? Te lo dico io. Non è successo niente. Quella è stata l’ultima volta che l’ho sentito. Ha sentito Delta Force ed è scomparso. Tu spaventi la gente, Luke. È questo che voglio dire.”

Luke si strinse nelle spalle. “Perché non dici che faccio un altro lavoro? Non è che io abbia intenzione di…”

“L’ho fatto. Una volta capito, ho cominciato a dire alla gente che fai l’avvocato.”

Per un attimo Luke si chiese che cosa significasse “gente”. Era uscita con qualcuno ogni giorno? Con due al giorno? Scosse la testa. Non erano più affari suoi, fin quando fosse stata al sicuro. E anche così… stava morendo. Non sarebbe più stata al sicuro, e non c’era nulla che lui potesse fare.

Tra loro passГІ una lunga pausa.

“Vuoi una seconda opinione?”

Becca annuì. Sembrava intorpidita, in stato di shock, come i sopravvissuti a disastri e atrocità. Luke l’aveva visto moltissime volte. La cosa fantastica era che sembrava anche essere assolutamente in salute. Un po’ più magra del solito, ma nessuno avrebbe mai indovinato che aveva il cancro. Probabilmente avrebbero pensato che si fosse messa a dieta.

Г€ la chemio a farli sembrare malati. La metГ  delle volte, ГЁ anche ciГІ che li uccide.

“Ho già avuto una seconda opinione da un mio vecchio collega. All’inizio della prossima settimana ne avrò una terza. Se è congruente con quello che ho già sentito, allora entro giovedì comincio le procedure.”

“La chirurgia è un’opzione?” disse Luke.

Scosse la testa. “È troppo tardi. Il cancro è ovunque…” La voce le morì. “Ovunque. La chemioterapia è l’unica opzione. Se esaurisco i farmaci approvati della chemio, allora forse test clinici, se sono ancora viva.”

Ricominciò a piangere. Era in piedi in mezzo al soggiorno, miserabile, la faccia nascosta nelle mani, il corpo scosso dai singhiozzi. A Luke sembrava una ragazzina. Lo colpiva vederla ridotta così. Era stato circondato dalla morte molto in vita sua, ne aveva vista troppa, ma quello? Non poteva essere vero. Si alzò, e poi andò da lei. L’avrebbe confortata, se ci fosse riuscito.

Lei lo spinse via, con violenza, come una bambina che fa a pugni al parchetto.

“Non toccarmi! Stammi lontano!” Lo indicò, la faccia una furente maschera di rabbia. “Sei tu!” urlò. “Tu fai ammalare le persone, non te ne accorgi? Rubi tutto l’ossigeno della stanza. Tu e le tue schifezze da supereroe.”

Fece ondeggiare la testa da un lato all’altro, prendendolo in giro. “Oh, scusami, tesoro,” disse con una bassa e caricaturale voce maschile. “Devo scappare a salvare il mondo. Non si sa se da qui a tre giorni sarò vivo o morto. Cresci il bambino per me, okay? Sto solo facendo il mio dovere patriottico.”

Ribolliva di rabbia. La voce le tornò normale. “Fai così perché è divertente, Luke. Fai così perché sei irresponsabile. Te la godi. Per te, conseguenze non ci sono. Non ti interessa se vivi o muori, e tutti gli altri devono avere a che fare con le ricadute e lo stress.”

Scoppiò in lacrime. “Con te ho finito. Finito.” Agitò una mano nella sua direzione. “Sono sicura che l’uscita ti ricordi dov’è. Quindi vattene. Okay? Va’ via. Lasciami morire in pace.”

Con ciò, lasciò la stanza. Trascorse un momento di silenzio, e poi Luke la udì singhiozzare nella camera padronale in fondo al corridoio.

Rimase lì in piedi per un lungo istante, non sapendo che fare. Gunner sarebbe stato a casa in un paio di ore. Non era una buona idea lasciarlo lì con Becca, ma non sapeva se aveva una gran scelta. Aveva lei la custodia. Lui aveva il diritto di visita. Se in quel momento si fosse portato via Gunner, senza il permesso di lei, tecnicamente sarebbe stato rapimento.

Sospirò. Quando mai la mancanza dei diritti legali di una situazione l’aveva fermato?

Luke era smarrito. Sentiva l’energia abbandonarlo. E ancora non avevano spiegato nulla al bambino. Forse avrebbe dovuto chiamare i genitori di Becca e parlarci. La verità era che Becca aveva gestito quasi tutti i dettagli domestici durante la loro relazione. Forse aveva ragione su di lui – lui era più a suo agio fuori nel mondo, a giocare a guardie e ladri con persone molto pericolose. C’erano delle persone che si preoccupavano per lui, lo sapeva, ma non se ne curava. Che razza di persona viveva così? Forse una persona che non era mai cresciuta.

Sul tavolo di vetro vicino al sofГ , il suo telefono cominciГІ a squillare. Lo guardГІ. Come spesso accadeva, sembrava quasi che fosse vivo, una vipera pericolosa da toccare.

Lo raccolse. “Stone.”

In linea c’era una voce maschile.

“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”

Alzò lo sguardo, e Becca adesso stazionava sulla soglia. Apparentemente aveva sentito il telefono suonare. Era tornata di nuovo, pronta ad ascoltare la conversazione per confermare tutti i peggiori sentimenti che provava nei suoi confronti. Per un secondo giusto, Luke si sentì pieno di livore nei suoi confronti – Becca aveva intenzione di aver ragione su di lui, a prescindere. Fin dentro alla tomba, aveva intenzione di coglierlo in flagrante.

Adesso giunse la voce di Susan Hopkins.

“Luke, ci sei?”

“Salve, Susan.”

“Da quanto tempo, agente Stone. Come stai?”

“Sto bene,” disse. “Tu?”

“Bene,” disse, ma il tono della voce diceva qualcos’altro. “Tutto okay. Senti, mi serve il tuo aiuto.”

“Susan…” cominciò lui.

“È una cosa di una giornata, ma è molto importante. Mi serve qualcuno che possa chiuderla rapidamente, e con assoluta discrezione.”

“Di cosa si tratta?”

“Non posso parlarne al telefono,” disse. “Puoi venire?”

Gli crollarono le spalle. Accidenti.

“Va bene.”

“Tra quanto puoi arrivare?”

Guardò l’orologio. Gunner sarebbe stato a casa in un’ora e mezza. Se voleva trascorrere del tempo con suo figlio, la riunione avrebbe dovuto aspettare. Se andava alla riunione…

SospirГІ.

“Arrivo il prima possibile.”

“Bene. Mi assicurerò che ti portino dritto da me.”

Luke riappese. Guardò Becca. C’era qualcosa di crudele e di derisorio nei suoi occhi. C’era un demone lì, che danzava su un lago di fuoco.

“Dove stai andando, Luke?”

“Lo sai dove sto andando.”

“Oh, non rimarrai qui per passare un po’ di tempo con tuo figlio? Non farai il buon padre? Che sorpresa. Cavolo, avrei pensato…”

“Becca, smettila. Okay? Mi dispiace che tu…”

“Perderai la custodia di Gunner, Luke. Parti di continuo in missione, no? Be’, indovina un po’. Ho intenzione di fare di te la mia missione. Quel ragazzino non lo vedrai neanche. Ci lavorerò col mio ultimo respiro. Lo cresceranno i miei, e tu non avrai accesso a lui. Lo sai perché?”

Luke puntГІ alla porta.

“Addio, Becca. Buona giornata.”

“Te lo dico io il perché, Luke. Perché i miei genitori sono ricchi! Adorano Gunner. E tu a loro non piaci. Pensi di poter battere i miei in una battaglia legale, Luke? Io credo di no.”

Era per metГ  fuori, ma si fermГІ e si voltГІ.

“È questo che vuoi fare del tempo che ti rimane?” disse. “È questo che vuoi essere?”

Lei lo fissГІ.

“Sì.”

Luke scosse la testa.

Non la riconosceva più, se mai l’aveva conosciuta.

E con ciГІ, se ne andГІ.




CAPITOLO QUATTRO


23:50 ora dell’Europa orientale (17:50 ora legale orientale)

Alessandropoli, Grecia



Si trovavano a trenta miglia dal confine turco. L’uomo controllò l’orologio. Quasi mezzanotte.

Presto, ancora presto.

Si chiamava Brown. Era un nome che non era un nome, per qualcuno che era scomparso molto tempo prima. Brown era un fantasma. Aveva una grossa cicatrice lungo la guancia sinistra – un proiettile che l’aveva appena mancato. Portava un taglio di capelli a spazzola. Era grande e forte, e aveva i lineamenti affilati di chi aveva trascorso tutta la vita adulta nelle operazioni speciali.

Un tempo Brown era conosciuto con un altro nome – col suo vero nome. Col passare del tempo, il nome era cambiato. A un certo punto era passato per così tanti nomi da non riuscire a ricordarseli tutti. L’ultimo era il suo preferito: Brown. Nessun nome di battesimo, nessun cognome. Solo Brown. Brown bastava e avanzava. Era un nome evocativo. Gli ricordava le cose morte. Le foglie morte nel tardo autunno. Gli alberi morti dopo un test nucleare. I marroni occhi morti spalancati e fissi delle molte, molte persone che aveva ucciso.

Tecnicamente, Brown era in fuga. Era finito sul lato sbagliato della storia circa sei mesi prima, su un lavoro che non gli era neanche stato spiegato. Aveva dovuto lasciare il suo paese di origine in fretta e sparire. Ma dopo un periodo di insicurezza, era tornato in piedi di nuovo. E, come sempre, c’era moltissimo lavoro da fare, soprattutto per un uomo con la capacità di ripresa che aveva lui.

Adesso, poco prima della mezzanotte, se ne stava fuori da un magazzino in una sezione malmessa del distretto portuale di quella città marittima. Il magazzino era circondato da un’alta recinzione sormontata da filo spinato, ma il cancello era aperto. Una fredda nebbia giungeva dal mar Mediterraneo.

Con lui c’erano due uomini, entrambi con addosso giacche in pelle, ed entrambi con mitra Uzi assicurati alle spalle, e scorte extra. Quelli sarebbero stati quasi identici, solo che uno di loro si era rasato completamente la testa.

Fuori sulla strada, si avvicinavano dei fanali.

“Occhi aperti,” disse Brown. “Adesso arrivano i guerrieri santi.”

Un furgoncino risaliva il viale deserto. C’era un’immagine gigante di arance lungo la fiancata, una di queste affettata a metà a esibire la brillante polpa rosso arancio del frutto. Sulla fiancata del furgone c’erano delle parole in greco, probabilmente il nome di un’azienda, ma Brown il greco non lo sapeva leggere.

Il furgone raggiunse il cancello e proseguì dritto nel giardino. Uno degli uomini di Brown si avvicinò e fece scivolare il cancello sui binari, poi lo chiuse a chiave con un pesante lucchetto.

Non appena il furgone si fu fermato, due uomini smontarono dalla cabina. Si aprì il portellone posteriore, e ne uscirono altri tre. Quegli uomini avevano la pelle scura, probabilmente erano arabi, ma erano rasati. L’uniforme che indossavano consisteva in blue jeans, leggere giacche a vento e sneakers.

Un uomo portava un’ampia borsa di tela, come fosse una borsa per l’attrezzatura da hockey, su ogni spalla. Il peso delle borse a tracolla gli abbassava le spalle. Tre degli uomini avevano degli Uzi.

Noi abbiamo gli Uzi, loro hanno gli Uzi. Uzi party.

Il quarto uomo, il conducente del furgone, aveva le mani libere. Si avvicinГІ a Brown. Aveva gli occhi azzurri, e la pelle molto scura. Aveva i capelli nero corvino. La combinazione degli occhi azzurri e della pelle scura faceva uno strano effetto in viso, come se non fosse stato del tutto reale.

I due si strinsero la mano.

“Jamal,” disse Brown. “Pensavo di averti detto di venire solo con tre uomini.”

Jamal fece spallucce. “Me ne serviva uno per portare i soldi. E io non conto, no? Quindi in effetti ne ho portati tre. Tre tiratori.”

Brown scosse la testa e sorrise. Aveva a malapena importanza quante persone avesse portato Jamal. I due uomini con Brown potevano uccidere una camionata di tiratori.

“Okay, andiamo,” disse Brown. “I camion sono dentro.”

Uno degli uomini di Brown – si faceva chiamare signor Jones – prese dalla tasca un apriporta automatico, e la saracinesca del magazzino lentamente sferragliò verso l’alto. Gli otto entrarono nello spazio cavernoso. Il magazzino era per lo più vuoto, tranne che per delle pesanti incerate verdi gettate su due veicoli giganteschi. Brown andò dal più vicino e scostò l’incerata per metà.

“Voilà!” disse. Quella che aveva scoperto era la metà anteriore di un ampio articolato, dipinto di verde, marrone e colori marrone chiaro mimetici. Jones scostò l’incerata vicino alla parte posteriore del mezzo, svelando una piatta piattaforma missilistica di lancio a quattro cilindri. Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo dall’idraulica.

I camion venivano chiamati trasportatori elevatori lanciatori, o TEL, relitti della Guerra fredda, stazioni di attacco mobili che la NATO aveva usato per tenere sotto bersaglio la vecchia Unione Sovietica. I lanciatori sparavano varianti più piccole del missile da crociera Tomahawk, e i missili potevano essere equipaggiati di piccole testate termonucleari. Erano armi per un limitato colpo nucleare tattico – il tipo che avrebbe eliminato una città di medie dimensioni, o distrutto totalmente una base militare e la campagna circostante, ma forse senza causare l’apocalisse. Certo, una volta cominciato a lanciare testate nucleari alla gente, può succedere di tutto.

Ai vecchi tempi, questo sistema missilistico lo chiamavano il “Grifone”, dall’antica creatura mitologica con le gambe e il corpo di un leone, e le ali, la testa e gli artigli di un’aquila – il protettore del divino. Brown ne era entusiasta.

Il sistema era stato smantellato nel 1991, e tutte quelle unità avrebbero dovuto essere distrutte. Ma ne esistevano ancora alcune. C’erano sempre delle armi a galleggiare da qualche parte. Brown non aveva mai sentito parlare di una classe di missili o di un sistema di armi smantellati interamente – c’erano troppi soldi da fare perdendoli e facendoli saltar fuori in un secondo momento. I negozi lo chiamavano “contrazione”. Walmart e Home Depot lo sapevano bene. Così come l’esercito.

Anzi, ecco qui due delle piattaforme mobili, rimaste parcheggiate in un magazzino di una città portuale greca per tutto questo tempo, vicinissimo alla Turchia, e a meno di un miglio dai moli. Bello comodo dentro a ciascuno dei cilindri di lancio c’era un missile Tomahawk, ciascuno operativo, o che probabilmente sarebbe diventato operativo in seguito a piccolissime cure.

Era quasi come se si potessero guidare quei camion fuori di lì e dritti su una nave mercantile o un traghetto, per poi salpare per luoghi ignoti. Erano armi convenzionali, certo, ma sicuramente da qualche parte c’erano ancora delle testate nucleari perfette per quei missili.

Ma ottenere le testate non era compito del dipartimento di Brown. Quello era un problema di Jamal. Era un ragazzo capace, e Brown immaginava che sapesse giГ  dove poterne trovare alcune di disponibili. Brown non sapeva con certezza come sentirsi in proposito. Jamal stava facendo un gioco pericoloso.

“Bellissimo,” disse Jamal.

“Dio è grande,” disse uno dei suoi uomini.

Brown fece una smorfia. Di regola, faceva una smorfia quando si parlava di religione. E bellissimo era un termine relativo. Quei camion erano due delle macchine da guerra più brutte che Brown avesse mai visto. Ma avrebbero tirato su un bel casino – poco ma sicuro.

“Ti piacciono?” chiese Brown a Jamal.

Jamal annuì. “Molto.”

“Allora vediamo i soldi.”

L’uomo con le pesanti borse a tracolla si avvicinò. Se le sfilò dalle spalle e le posò sul pavimento in pietra del magazzino. Si inginocchiò e le aprì, una alla volta.

“Un milione di dollari in contanti in ciascuna borsa,” disse Jamal.

Brown fece un cenno col capo all’altro suo uomo, quello calvo.

“Signor Clean, controlla.”

Clean si inginocchiГІ vicino alle borse. Estrasse un fascio di banconote tenute insieme da un elastico da varie sezioni di ciascuna borsa. Prese un piccolo scanner digitale dalla tasca e si mise a rimuovere le banconote da ogni fascio. Accese la luce LED UV sul dispositivo e mise le banconote sulla finestra dello stesso una alla volta, svelando il filo di sicurezza d ciascuna. Poi strisciГІ una pen tester su ogni banconota, svelando la filigrana nascosta. Era un processo macchinoso.

Mentre Clean lavorava, Brown ficcò una mano nella giacca, toccando la pistola che lì si trovava. Cercò il contatto visivo col suo uomo Jones, che annuì. Se doveva succedere qualcosa di strano, sarebbe accaduto in quel momento. Il linguaggio del corpo degli arabi non cambiò – continuavano a osservare impassibili. Brown lo prese come un buon segno. Erano davvero lì per comprare i camion.

Il signor Clean lasciò cadere un fascio di soldi sul pavimento. “Bene.” Raccolse un altro fascio, cominciò a sfogliarli, controllandone le banconote con il dispositivo. Il tempo scorreva.

“Bene.” Lasciò cadere quel fascio e ne raccolse un altro. Passò altro tempo.

“Bene.” Procedeva.

Dopo un po’ la cosa cominciò a farsi noiosa. I soldi erano veri. Nel giro di dieci minuti, Brown si rivolse a Jamal.

“Okay, ti credo. Sono due milioni.”

Jamal si strinse nelle spalle. Aprì la giacca e ne estrasse un ampio portamonete di velluto. “Due milioni in contanti, due milioni in diamanti, come d’accordo.”

“Clean,” disse Brown.

Il signor Clean si alzò e prese il portamonete da Jamal. Clean era l’esperto di soldi e valori di quella piccola squadra. Prese dalla tasca un diverso dispositivo elettronico – un piccolo quadrato nero con la punta di un ago. Il dispositivo aveva delle luci sul fianco, e Brown sapeva che testavano la dispersione di calore e la conduttività elettrica delle pietre.

Clean si mise a prendere le pietre una alla volta dal sacchetto e a passarci sopra delicatamente la punta dell’ago. Ogni volta che ne faceva una, si sentiva un tono caldo. Ne aveva passate una dozzina prima che Brown gli dicesse un’altra parola.

“Clean?”

Clean guardГІ Brown. Sorrideva.

“Finora sono buone,” disse. “Tutti diamanti.”

Ne testò un’altra. Poi un’altra.

Un’altra.

Brown si voltò verso Jamal, che stava già facendo segno ai suoi uomini di tirare l’incerata e salire a bordo dei camion.

“È stato un piacere fare affari con te, Jamal.”

Jamal lo guardò a malapena. “Altrettanto.” Era preso dai suoi uomini, e dai camion. La parte successiva del loro viaggio era già cominciata. Portare due piattaforme mobili di lancio per missili nucleari con missili inclusi nel Medio Oriente probabilmente non era cosa facile.

Brown sollevò un dito. “Ehi, Jamal!”

L’uomo magro si voltò verso di lui. Fece un gesto impaziente con la mano, come per dire, “Cosa?”

“Se ti beccano con quella roba…”

Adesso Jamal però sorrise. “Lo so. Io e te non ci siamo mai visti.” Indietreggiò verso il camion più vicino.

Brown si voltò verso il signor Jones e il signor Clean. Jones era su un ginocchio, a rimettere i soldi nella pesante borsa. Clean stava ancora testando i diamanti del borsello di velluto, maneggiandone uno alla volta, il dispositivo con l’ago ancora in mano.

Avevano vinto alla lotteria. Le cose finalmente si mettevano bene, dopo il fiasco che aveva costretto Brown a lasciare il suo paese. Sorrise.

E tutto in un solo giorno di lavoro.

Però nella scena c’era qualcosa che lo disturbava. I suoi non stavano facendo attenzione all’ambiente – erano distratti da tutti quei soldi. Avevano abbassato la guardia, di brutto. E anche lui. In un’operazione diversa, la cosa si sarebbe potuto ritorcere contro di loro. Non tutti erano degni di fiducia come Jamal.

Si voltГІ per guardare di nuovo gli arabi.

Jamal era lì, vicino al camion, con in mano uno degli Uzi. Due dei suoi erano con lui. Erano in piedi in fila, a puntare le armi su Brown e i suoi uomini.

Jamal sorrise.

“Clean!” urlò Brown.

Jamal sparò, e i suoi uomini fecero lo stesso. Giunse il brutto chiasso di un mitragliatore. A Brown parve che gli stessero quasi sparando con una manichetta per l’acqua. Sentì i proiettili forarlo, farsi strada dentro di lui come api che pungono. Il suo corpo fece una danza involontaria alla quale lui cercò di ribellarsi, invano. Era quasi come se i proiettili lo tenessero su, fissandolo come con uno spillo in posizione eretta, facendolo tremolare e ballare.

Per un attimo perse conoscenza. Tutto si fece nero. Poi era disteso sulla schiena, sul pavimento di cemento del magazzino. Riusciva a sentire il sangue versarsi fuori dal corpo. Riusciva a sentire che il pavimento era bagnato, dove si trovava disteso. Attorno gli si stava allargando una pozzanghera. Provava molto dolore.

GuardГІ il signor Clean e il signor Jones. Erano entrambi morti, i corpi crivellati, le teste scomparse per metГ . Solo Brown era ancora vivo.

Gli venne in mente che era sempre stato un sopravvissuto. Cavolo, era sempre stato un vincitore. Era assurdo che dopo più di due decenni di combattimenti, folli avventure e anguste fughe morisse adesso, così. Era impossibile. Era troppo bravo nel suo lavoro. Avevano tentato di ucciderlo così tanti uomini prima di quel momento, e avevano fallito. La sua vita non sarebbe finita così. Non poteva.

Cercò di mettere la mano in tasca per la pistola, ma il braccio sembrava non funzionare bene. Poi si accorse di un’altra cosa. Nonostante tutto il dolore, non riusciva a sentirsi le gambe.

Riusciva a sentire il bruciore nella pancia, dove gli avevano sparato. Riusciva a sentire il dolore fischiante alla testa, dove era andato a sbattere sul pavimento in pietra quando era caduto. Deglutì, poi sollevò la testa e si fissò i piedi. C’era ancora tutto laggiù, e tutto attaccato – ma non riusciva a sentire niente.

I proiettili mi hanno reciso la spina dorsale.

Nessun altro pensiero gli aveva mai causato tanto orrore. Trascorsero svariati secondi in cui vide il suo futuro – avanzare sulle ruote di una sedia a rotelle, cercare di arrampicarsi dalla sedia al sedile del conducente dell’auto accessibile ai disabili, svuotare la sacca della colostomia che gli risucchiava via la merda dal suo inutile sistema digestivo.

No. Scosse la testa. Non c’era un tempo per quello. C’era un tempo solo per l’azione. La pistola di Clean era sopra alla sua testa e dietro di lui. Si allungò – faceva male anche solo alzare le braccia così – ma non riuscì a trovarla. Cominciò a strisciare all’indietro, trascinandosi dietro le gambe.

Qualcosa colse la sua attenzione. AlzГІ lo sguardo ed ecco che arrivava Jamal, avanzando da spaccone verso di lui. Il bastardo sorrideva.

Avvicinandosi, sollevò l’arma. La puntò su Brown. Adesso Brown notò che con Jamal c’erano i suoi due uomini.

“Non cercare di fare niente, Brown. Stattene steso fermo.”

Gli uomini di Jamal presero la pesante borsa con i soldi, e il piccolo portamonete con i diamanti. Poi si voltarono e tornarono ai camion. Salirono nella cabina del camion di testa. Si accesero i fanali. Il motore ruttГІ e scoreggiГІ, del fumo nero si riversГІ sul lato del conducente.

“Tu mi piaci,” disse Jamal. “Ma gli affari sono affari, no? Per questo affare non lasciamo niente di incompiuto. Mi dispiace. Sul serio.”

Brown cercò di dire qualcosa, ma sembrava non avere voce. Tutto ciò che riuscì a fare in risposta fu farfugliare.

Jamal sollevГІ di nuovo la pistola.

“Vuoi un momento per pregare?”

Brown quasi rise. Scosse la testa. “La sai una cosa, Jamal? Mi fai venire i nervi. Tu e la tua religione sono sciocchezze. Se voglio pregare? Pregare cosa? Non c’è nessun Dio, e lo scoprirai non appena…”

Brown vide il fuoco lambire la fine della canna della pistola. Poi era piatto sulla schiena, a fissare il soffitto del magazzino alto sopra la sua testa.




CAPITOLO CINQUE


21:45 ora legale delle Montagne Rocciose (23:45 ora legale orientale)

Penitenziario federale ADX Florence (Supermax) – Florence, Colorado



“Eccoci,” disse la guardia. “Casa dolce casa.”

Luke percorreva i bianchi corridoi in calcestruzzo della prigione più sicura degli Stati Uniti. Le due alte e massicce guardie in uniforme marrone lo fiancheggiavano. Erano quasi identiche, quelle guardie, con un taglio a spazzola militare da recluta, grosse spalle e braccia, e un torso ancora più grosso. Avanzavano, i corpi tesi e il baricentro alto, come degli aggressivi attaccanti di una squadra di football fuori dallo sport da un po’ di tempo.

Non erano in forma nel senso tradizionale del termine, ma Luke riteneva che avessero la stazza e la figura perfette per il loro lavoro. A stretto contatto, potevano mettere un bel peso addosso a un prigioniero che faceva resistenza.

I passi riecheggiavano sul pavimento in pietra mentre i tre uomini superavano le porte d’acciaio chiuse e senza finestre di dozzine di celle. Ciascuna porta aveva una stretta apertura vicino al fondo, come una fessura per la posta, attraverso la quale le guardie potevano far passare i pranzi e le cene ai prigionieri. Ciascuna aveva anche due finestrelle con vetro rinforzato in acciaio che davano sul passaggio. Luke non guardò in nessuna delle finestre che superarono.

Da qualche parte in quel corridoio, un uomo urlava. Sembrava in agonia. Urlava e urlava, senza dar segno di finire. Era notte, presto le luci sarebbero state spente, e un uomo gridava. Luke pensava quasi di riuscire a rappresentarsi le parole incorporate in quel rumore.

GuardГІ una delle guardie.

“Sta bene,” disse la guardia. “Davvero. Non sta soffrendo. Ulula e basta.”

L’altra guardia parlò. “La solitudine ne fa uscire pazzi alcuni.”

“La solitudine?” disse Luke “Volete dire l’isolamento?”

La guardia si strinse nelle spalle. “Sì.” Per lui era una questione semantica. Alla fine del turno andava a casa sua. Mangiava da Denny’s, a vederlo, e attaccava bottone con qualcuno. Portava la fede all’anulare della spessa mano sinistra. Aveva una moglie, probabilmente dei figli. Quell’uomo aveva una vita fuori da quelle mura. E i prigionieri? Non tanto.

Aveva alloggiato lì un gotha di furfanti e cattivi, Luke lo sapeva. L’Unabomber Ted Kaczynski era un residente attuale, così come Dzhokhar Tsarnaev, il fratello sopravvissuto dei due attentatori della maratona di Boston. Il capo mafioso John Gotti aveva vissuto lì per anni, così come il suo violento sgherro, Sammy “The Bull” Gravano.

Era una violazione delle regole del complesso a permettere a Luke di superare la stanza delle visite, ma quelle non erano esattamente le ore di visita, e si trattava di un caso speciale. Un prigioniero aveva delle informazioni da offrire, ma aveva insistito nel vedere Luke personalmente – non a un telefono con uno spesso vetro divisorio tra di loro, ma faccia a faccia, e uomo a uomo, nella cella. La presidente degli Stati Uniti stessa aveva chiesto a Luke di accettare l’incontro.

Si fermarono di fronte a una porta bianca, una delle tante. Luke sentì il cuore perdere un colpo. Era nervoso, solo un pochino. Non cercò di sbirciare l’uomo attraverso le finestre minuscole. Non voleva vederlo così, come un topo che viveva in una scatola da scarpe. Voleva che l’uomo fosse leggendario, immenso.

“È mio compito informarla,” cominciò una delle guardie, “che i prigionieri che si trovano qui vengono considerati tra i più violenti e pericolosi attualmente presenti nel sistema correzionale federale degli Stati Uniti. Se sceglie di entrare in questa cella e declina…”

Luke sollevò una mano. “Non serve. Conosco i rischi.”

La guardia fece di nuovo spallucce. “Si accomodi pure.”

“Per la cronaca, non voglio che la conversazione venga registrata,” disse Luke.

“Tutte le celle vengono riprese dalle telecamere di sorveglianza ventiquattr’ore al giorno,” disse adesso la guardia. “Ma non c’è audio.”

Luke annuì. Non credette a una parola. “Bene. Urlerò, se mi serve aiuto.”

La guardia sorrise. “Non sentiremo.”

“Allora agiterò le mani.”

Entrambe le guardie risero. “Sarò in fondo al corridoio,” disse uno dei due. “Picchi forte sulla porta quando vuole uscire.”

La porta fece un fragoroso suono metallico quando venne aperta la serratura, poi si aprì, mansueta. Da qualche parte, qualcuno li osservava davvero.

Aprendosi, la porta mostrò una minuscola e tetra cella. La prima cosa che Luke notò fu la toilette di metallo. Sopra aveva un rubinetto per l’acqua, in una strana combinazione, ma che aveva un senso logico, presumeva lui. Tutto il resto era fatto di pietra, e fissato sul luogo. Una stretta scrivania di pietra si estendeva dal muro di calcestruzzo, con un rotondo sgabello di pietra come un piccolo piolo che ne usciva dal pavimento di fronte.

La scrivania era piena di carte, qualche libro e quattro o cinque tozze matite come quelle che usano i giocatori di golf per tenere il punteggio. Come la scrivania, il letto era stretto e fatto di pietra. Lo copriva un sottile materasso, e c’era una coperta verde che sembrava fatta di serge di lana, o di un materiale ugualmente irritante. C’era una stretta finestra sulla parete in fondo, con una cornice verde alta forse sessanta centimetri e larga quindici. Fuori dalla finestra era buio, tranne che per una malaticcia luce gialla che si diffondeva nella cella da una vicina lampada ad arco al sodio montata sul muro esterno. Non c’era modo di coprire la finestra.

Il prigioniero era in piedi, in una tuta arancione, l’ampia schiena che dava loro le spalle.

“Morris,” disse la guardia. “C’è il tuo visitatore. Fammi il favore di non ucciderlo.”

Don Morris, ex colonnello dell’esercito degli Stati Uniti e comandante della Delta Force, fondatore ed ex direttore dello Special Response Team dell’FBI, si voltò lentamente. Il suo viso sembrava più rugoso di prima e i capelli sale e pepe erano diventati totalmente bianchi. Ma gli occhi erano profondi, acuti e attenti, e il petto, le braccia, le gambe e le spalle sembravano più forti che mai.

La sua bocca fece una specie di sorriso, che perГІ non raggiunse gli occhi.

“Luke,” disse. “Grazie di essere venuto. Benvenuto a casa mia. Ventisei metri quadrati, approssimativamente due e venti per tre e sessanta.”

“Ciao, Don,” disse Luke. “Mi piace proprio come hai sistemato questo posto.”

“Ultima occasione di cambiare idea,” disse una delle guardie alle sue spalle.

Luke scosse la testa. “Penso che starò bene.”

Gli occhi di Don caddero sulle guardie. “Lo sapete chi è quest’uomo, vero?”

“Lo sappiamo. Sì.”

“Allora presumo,” disse Don, “che possiate immaginare quanto poco pericolo io rappresenti per lui.”

La porta si chiuse sferragliando. Luke provò qualcosa, mentre si fissavano attraverso la cella – avrebbe potuto chiamarla nostalgia. Don era stato il suo comandante e il suo mentore alla Delta. Quando Don aveva avviato lo Special Response Team, aveva assunto Luke come primo agente. In molti modi, e per più di dieci anni, Don era stato come un padre per lui.

Ma ormai non piГ№. Don era stato uno dei cospiratori del complotto per uccidere il presidente degli Stati Uniti e rovesciare il governo. Era stato connivente nel rapimento della moglie e del figlio di Luke. Aveva saputo in anticipo della bomba che aveva ucciso piГ№ di trecento persone a Mount Weather. Davanti a Don si stagliava la pena di morte, e Luke non riusciva a pensare a una persona che piГ№ meritasse quel destino.

I due si strinsero la mano, e Don mise una mano sulla spalla di Luke, solo per un secondo. Era il gesto imbarazzante di un uomo ormai non piГ№ abituato al contatto umano. Luke sapeva che i prigionieri del Supermax raramente toccavano altri esseri umani.

“Grazie di tutte le visite che hai fatto e delle lettere che hai mandato,” disse Don. “È stato di conforto sapere che il mio benessere è una tale priorità per te.”

Luke scosse la testa. Quasi sorrise. “Don, fino a ieri pomeriggio non sapevo neanche dove ti tenessero. E non me ne importava niente. Poteva anche essere un buco per terra. Poteva essere sul fondo di Mount Weather.”

Don annuì. “Quando perdi, con te possono farci tutto quello che vogliono.”

“Ampliamente meritato, in questo caso.”

Don fece un cenno al piolo di pietra che spuntava come un fungo dal pavimento. “Perché non ti accomodi?”

“Resto in piedi. Grazie.”

Don fissò Luke, la testa gli si inclinò interrogativamente di lato. “Non ho da offrire molta ospitalità, Luke. È tutto qua.”

“Perché dovrei accettare la tua ospitalità, Don?”

Gli occhi di Don non si voltarono da un’altra parte. “Scherzi? Per i vecchi tempi. Come gesto di ringraziamento per averti fatto da mentore nella Delta e per averti dato il tuo lavoro attuale. Pensa a una ragione, figliolo.”

“Esattamente quello che dico io, Don. Quando penso a te, penso a mio figlio, e a mia moglie, che tu hai rapito.”

Don sollevò le mani. “Io non c’entravo niente. Te lo giuro. Se fosse stato per me, non avrei mai permesso che venisse fatto del male a Gunner o Becca. Sono come il mio sangue, come la mia famiglia. Ti avevo avvertito perché volevo proteggerli, Luke. L’ho scoperto dopo che era già accaduto. Mi dispiace che sia successo. Non c’è nulla nella mia lunga carriera che rimpianga di più.”

Luke scrutò gli occhi di Don, il suo linguaggio del corpo, in cerca di… qualcosa. Stava mentendo? Stava dicendo la verità? Che cosa credeva, poi, Don? Chi era quell’uomo, a cui Luke un tempo pensava di voler bene?

Luke sospirò. Avrebbe accettato l’esigua ospitalità dell’uomo. Quello gliel’avrebbe dato, e quella notte se ne sarebbe rimasto sveglio a letto a chiedersi perché mai l’avesse fatto.

Si accovacciГІ sulla bassa pietra.

Don sedette sul letto. Tra loro si allungò una pausa. Non c’era nulla di bello.

“Come va l’SRT?” disse alla fine Don. “Immagino che abbiano fatto direttore te, no?”

“Me l’hanno chiesto, ma io ho rifiutato. L’SRT è finito, disperso al vento. La maggior parte degli agenti è stata riassorbita dal Bureau vero e proprio. Ed Newsam è alla squadra di recupero ostaggi. Mark Swann è andato all’NSA. Io mi tengo parecchio in contatto con loro – li prendo in prestito per un’operazione di tanto in tanto.”

Luke vide un flash di qualcosa negli occhi di Don, che scomparve quasi prima di palesarsi. Il suo bambino, lo Special Response Team dell’FBI, il culmine del lavoro di una vita, era stato smantellato. Non l’aveva saputo? Luke presumeva di no.

“Trudy Wellington è scomparsa,” disse Luke.

Negli occhi di Don apparve qualcos’altro, che stavolta rimase lì. Se indugiava, voleva dire che Don voleva che lui lo vedesse. Luke non capiva se si trattasse di un’emozione, di un ricordo o di un’informazione. Era bravo a leggere la gente, ma Don era una vecchia spia. La sua mente e il suo cuore erano libri chiusi.

“Tu non ne sai niente, vero, Don?”

Don si strinse nelle spalle, offrì un mezzo sorriso. “La Trudy che conoscevo era molto intelligente. Teneva le antenne belle alte. Se devo tirare a indovinare, dico che ha sentito un brontolio distante che l’ha infastidita, e che è scappata prima che si avvicinasse.”

“Le hai parlato?”

Don non rispose.

“Don, non ha senso pensare di ostacolarmi. Posso fare una telefonata e scoprire con chi hai parlato, chi ti ha scritto e che cosa c’era nella lettera. Non hai privacy. Hai parlato con Trudy o no?”

“Sì, ci ho parlato.”

“E cosa le hai detto?” disse Luke.

“Le ho detto che la sua vita era in pericolo.”

“Sulla base di cosa?”

Don guardò il soffitto per un momento. “Luke, tu sai quel che sai, e va bene così. E poi non sai quello che non sai. Se hai dei limiti, sicuramente questo è uno. Quello che non sai in questo caso, perché non ti interessi di politica, è che c’è una guerra silenziosa in corso dietro le quinte da sei mesi. L’attentato a Mount Weather? Quella notte sono morte molte persone di alto profilo. E molte persone di basso profilo sono morte da allora. Direi almeno tante quante ne sono morte nell’attentato originale. Trudy non era coinvolta nel complotto contro Thomas Hayes, ma non tutti ci credono. C’è gente là fuori che va a caccia della retribuzione.”

“Quindi è scappata col tuo benestare?”

“Sì, penso di sì.”

“Lo sai dov’è?”

Don fece spallucce. “Non te lo direi, se lo sapessi. Un giorno, se vuole che tu sappia dove si trova, sono sicuro che sarà la prima a dirtelo.”

Luke ebbe l’impulso di chiedere se stesse bene, ma si controllò. Non avrebbe dato a Don quel tipo di potere – sarebbe stato proprio quello che il vecchio voleva. Invece, tra loro si allungò un’altra pausa. I due uomini se ne stavano seduti nello spazio minuscolo, a fissarsi negli occhi. Alla fine Don ruppe il silenzio.

“Allora per chi stai lavorando, se non per l’SRT? Ho problemi a immaginarmi Luke Stone in vacanza per molto tempo.”

Luke si strinse nelle spalle. “Immagino che tu diresti che sono un freelancer, ma ho un solo cliente. Lavoro direttamente per la presidente, nelle rare occasioni in cui mi chiama. Come ha fatto oggi, per chiedermi di venire qui a vederti.”

Don sollevò un sopracciglio. “Un freelancer? Ti pagano ancora il tuo stipendio e i benefit?”

“Mi hanno dato un aumento,” disse Luke. “Anzi, penso che mi abbiano dato il tuo vecchio stipendio.”

“Sprechi del governo,” disse Don assumendo il suo personaggio da amministratore dell’agenzia e scuotendo la testa. “Però ti si adatta bene. Non sei mai stato il tipo dal lunedì al venerdì.”

Luke non rispose. Dal suo punto di vista, riusciva a vedere ciò che offriva la finestra. Nulla – il muro di calcestruzzo di un’altra ala dell’edificio, con un frammento di cielo scuro visibile sopra.

Era un progetto insidioso. Il complesso si trovava sulle Montagne Rocciose – quando Luke quella notte era arrivato, oltre le torri di guardia e il cemento e il filo spinato, era rimasto sconvolto dalla vista degli alti picchi che circondavano il posto. L’aria era fredda e le montagne erano leggermente spruzzate della prima neve. Persino di notte si poteva dire che quel luogo era bellissimo.

I prigionieri non lo vedevano mai. Luke ci avrebbe scommesso cinque dollari che ogni cella di quella prigione aveva la stessa vista di qualunque altra – un muro vuoto.

“Allora, che cosa vuoi, Don? Susan mi ha detto che hai un’informazione che non vedi l’ora di condividere, ma solo con me. In questo momento ho molte cose di cui occuparmi nella mia vita, ma sono venuto qui perché è mio dovere. Non sono sicuro di come hai ottenuto quest’informazione, date le tue circostanze attuali…”

Don sorrise. I suoi occhi erano completamente separati da qualunque emozione la sua bocca cercasse di trasmettere. Sembravano gli occhi di un alieno, simili a quelli di una lucertola, privi di empatia, di preoccupazione, persino di interesse. Gli occhi di una cosa che potrebbe mangiarti o sfuggirti, ma senza sentire nulla nel farlo.

“Ci sono degli uomini molto intelligenti qui,” disse. “Non crederesti mai a quanto sia intricato il sistema di comunicazione tra i prigionieri. Mi piacerebbe descrivertelo – penso che ne saresti affascinato – ma non voglio neanche mettere a rischio il sistema o me stesso. Ti farò un esempio di ciò che sto dicendo, però. Hai sentito l’uomo che prima urlava?”

“Sì,” disse Luke. “Non ho capito di cosa si trattasse. Le guardie mi hanno detto che è impazzito…” La voce gli si spense.

Ma certo. L’uomo aveva detto qualcosa, se si avevano orecchie per intendere.

“Esatto,” disse Don. “Il banditore. È così che lo chiamo. Non è l’unico, e quello non è l’unico metodo. Proprio per niente.”

“Allora, che cos’hai?” disse Luke.

“C’è una trama,” disse Don, la voce che si era trasformata a poco più di un sussurro. “Come sai, molti degli uomini di qui sono affiliati alle reti terroristiche. Hanno i loro modi di comunicare. Quello che ho sentito io è che in Belgio c’è un gruppo che sta prendendo di mira le vecchie testate nucleari della Guerra fredda immagazzinate lì. Le testate sono poco seguite su una base NATO belga. La sicurezza è una sciocchezza. I terroristi, non so per certo chi, cercheranno di rubare una testata, o forse un missile, o più di uno.”

Luke ci pensò per un attimo. “A cosa servirebbe? Senza i codici nucleari le testate non sono neanche operative. Devono saperlo. È come rischiare la vita per rubare un fermacarte gigante.”

“Io presumerei che i codici li abbiano,” disse Don. “O hanno accesso ai codici stessi, o hanno scoperto un modo di generarli.”

Luke lo fissò. “Non hanno modo di lanciare una testata. Senza un sistema di consegna, non genereranno mai l’energia per l’esplosione. Qui non siamo mica su Bugs Bunny. Non si può mica prendere a martellate quelle cose.”

Don fece spallucce. “Credi quello che vuoi credere, Luke. Tutto ciò che ti sto dicendo è quello che ho sentito.”

“È tutto?” disse Luke.

“Sì.”

“Allora perché hai scelto di dirlo? Se qualcuno scopre che stai passando i segreti che senti qui… be’, immagino che comunicare non sia l’unica cosa che questi qui sanno fare.”

Adesso per il viso di Don passГІ la rabbia, come una breve burrasca estiva in alto mare. Tutto si fece oscuro per un momento, la tempesta apparve, poi passГІ. Fece un respiro profondo, apparentemente per calmarsi.

“Perché non dovrei condividere l’informazione che ho? Temo che tu mi abbia capito male, Luke. Io sono un patriota, tanto quanto te, se non di più. Rischiavo la vita per gli Stati Uniti prima ancora che tu nascessi. Ho fatto quello che ho fatto perché amo il mio paese, e non per altre ragioni. Non tutti sono d’accordo sul fatto che fosse la cosa giusta da fare, ed è per questo che sono qui dentro. Però ti prego di non mettere in questione la mia fedeltà, né il mio coraggio. Non c’è uomo in questo complesso che mi intimidisca, te incluso.”

Luke era ancora scettico. “E non vuoi niente in cambio?”

Don non disse nulla per un lungo momento. Fece un cenno alla scrivania disordinata. Poi sorrise. Non c’era allegria in quel sorriso.

“Sì che voglio qualcosa. Non è molto da chiedere.” Fece una pausa, e guardò la minuscola cella. “Non mi dispiace stare qui, Luke. Alcuni uomini impazziscono davvero – la gente illetterata. Non hanno accesso alla vita della mente. Ma io sì. A te pare che io sia chiuso a chiave dietro a muri di calcestruzzo, ma per me è quasi come essere in anno sabbatico. Correvo da quarant’anni filati, senza la possibilità di prendermi una pausa. Queste mura non mi imprigionano. Ho vissuto una vita che basta a una dozzina di uomini, ed è tutta quanta ancora quassù.”

Si fece tamburellare le dita sulla fronte.

“Sto pensando ai vecchi tempi, alle vecchie missioni. Ho cominciato a lavorare alle mie memorie. Penso che un giorno saranno una lettura affascinante.”

Si fermò. Uno sguardo distante gli entrò negli occhi. Fissò il muro, ma stava guardando qualcos’altro. “Ricordi i tempi alla Delta, quando ci hanno mandato nel Congo dopo che il signore della guerra si è incoronato principe Joseph? Quello con i soldati bambini? L’esercito del paradiso.”

Luke annuì. “Me lo ricordo. I pezzi grossi del JSOC non volevano che tu ci andassi. Pensavano…”

“Che fossi troppo vecchio. È vero. Ma sono andato lo stesso. E stiamo scesi lì di notte, io, te, chi altro? Simpson…”

“Montgomery,” disse Luke. “Un paio di altri.”

Gli occhi di Don erano molto vivi. “Giusto. Il pilota ha combinato un macello e ci ha buttati nel fiume, in uno degli affluenti. Siamo tutti precipitati in acqua con addosso diciotto chili di zaino.”

“Non mi piace pensarci,” disse Luke. “Ho sparato a quel rinoceronte.”

Don lo indicò. “Giusto. Me n’ero dimenticato. Il rinoceronte ci ha caricati. Riesco ancora a vederlo sotto la luce della luna. Però ci siamo arrampicati fuori, zuppi, e abbiamo squarciato la gola di quel bastardo sanguinario – gli abbiamo decapitato tutta la squadra con un solo rapido e decisivo colpo. E non abbiamo torto un capello a nessuno dei bambini. Sono stato orgoglioso dei miei uomini, quella notte. Sono stato orgoglioso di essere americano.”

Luke annuì di nuovo, quasi sorrise. “È stato molto tempo fa.”

“Per me è stato ieri,” disse Don. “Ho appena cominciato a scriverlo. Domani aggiungo il rinoceronte.”

Luke non disse nulla. Era stata una missione, una delle tante. L’autobiografia di Don sarebbe stata un libro lungo.

“E qual è il punto,” disse Don. “Qui non è male. Il cibo non è neanche cattivo – be’, non è cattivo come ci si potrebbe aspettare. Ho i miei ricordi. Ho una vita. Ho messo su una routine di esercizi fisici che per la maggior parte posso fare qui, nella cella. Squat, pushup, chin up, persino posizioni yoga e tai chi. Ho una sequenza, e la eseguo per ore ogni giorno, cambio velocità, la inverto. Ha anche una componente mentale. Credo che darebbe il via a dei patiti del fitness, se la gente la conoscesse. Vorrei registrarla – Prison Power. Mi ha messo in una forma migliore di quando ero fuori nel mondo, libero di fare tutto ciò che mi pareva.”

“Okay, Don,” disse Luke. “Questa è la tua villa per la pensione. Carino.”

Don sollevò una mano. “Voglio vivere, è questo che ti sto dicendo. Mi faranno l’iniezione. Lo sai tu e lo so io. Non voglio l’iniezione. Senti, sono realistico. Lo so che non otterrò la grazia, non nell’attuale ambiente politico. Ma se l’informazione che ti ho dato darà risultati, voglio che la presidente commuti la mia in una sentenza a vita senza la possibilità della condizionale.”

Luke era irritato dall’incontro. Don Morris se ne stava seduto su quello che consisteva in un bagno di pietra, a scrivere le sue memorie e a sviluppare ciò che sperava sarebbe diventata una passeggera moda nel fitness. Patetico. Luke una volta vedeva Don come un grande americano.

La valvola di controllo del sangue di Luke passò da caldo a incandescente. Aveva i suoi problemi, e la sua vita, ma ovviamente a Don non importava tanto. Don era diventato il centro del suo personale universo, lì dentro.

“Perché lo fai, Don?” Indicò la cella. “Cioè…” Scosse la testa. “Guarda questo posto.”

Don non esitò. “L’ho fatto per salvare il mio paese, e lo rifarei. Thomas Hayes era il presidente peggiore dai tempi di Herbert Hoover. Su questo non ho dubbi. Ci stava portando sottoterra. Non aveva idea di come proiettare il potere dell’America nel mondo, e non aveva la propensione a farlo. Pensava che il mondo si prendesse cura di sé. Si sbagliava. Il mondo NON si prende cura di sé. Ci sono forze oscure allineate contro di noi – vanno fuori controllo se per un secondo non le guardiamo. Si fanno posto nel vuoto di potere che lasciamo loro. Vittimizzano il debole e l’inerme. I nostri amici perdono la fede. Io non potevo più restare in attesa e lasciare che accadessero queste cose.”

“E che cosa hai ottenuto?” disse Luke. “Il paese lo sta gestendo la vicepresidente di Hayes.”

Don annuì. “Giusto. E lei ha un paio di cojones più grossi di lui. La gente a volte ti sorprende. Non sono scontento di avere Susan Hopkins come presidente.”

“Ottimo,” disse Luke. “Glielo dirò. Sono sicuro che sarà deliziata di sentirlo. Don Morris non è scontento della tua presidenza.” Si alzò. Era pronto ad andare. Quel piccolo incontro avrebbe dato molto su cui riflettere.

Don saltò giù dal letto. Mise di nuovo la mano sulla spalla di Luke. Per un attimo Luke pensò che Don avrebbe buttato fuori qualcosa di emotivo, qualcosa che Luke avrebbe trovato imbarazzante, come, “Non andare!”

Ma Don non lo fece.

“Non ignorare quello che ti ho detto,” disse. “Se è vero, abbiamo problemi. Anche una sola arma nucleare nelle mani dei terroristi sarebbe la cosa peggiore a cui si può pensare. Non esiteranno a usarla. Un lancio di successo e il genio è fuori dalla bottiglia. Chi se la becca? Israele? E chi colpiscono quelli con le loro testate? L’Iran? Come si mette il freno a questa cosa? Si chiede un time out? Ne dubito. E se veniamo colpiti noi? O i russi? O entrambi? E se viene innescata una serie automatica di rappresaglie? Paura. Confusione. Fiducia zero. Uomini nei silos, le dita che si agitano, a indugiare sopra al pulsante. Ci sono molte armi nucleari ancora sulla Terra, Luke. Una volta che cominciano i lanci, non c’è una buona ragione per fermarli.”




CAPITOLO SEI


20 ottobre

3:30

Georgetown, Washington, DC



Un pick-up nero lo stava seguendo.

Luke aveva preso un volo notturno per tornare. Adesso era stanco – esausto – però ancora iperattivo e sveglio. Non sapeva quando avrebbe dormito di nuovo.

Il taxi lo aveva scaricato di fronte a una fila di belle brownstone. Le strade a tre corsie erano silenziose e vuote. Sembravano luccicare nella luce delle lampade barocche. Mentre il taxi se ne andava, lui se ne stava in piedi sulla strada ad assaporare la notte fredda. Gli alberi stavano perdendo le foglie – erano ovunque per terra. Mentre osservava, ne scesero delle altre.

Dall’aeroporto, era venuto dritto alla casa di Trudy. Le ombre erano tirate, ma almeno sulla strada era accesa una luce a livello dell’appartamento. Non c’era nessuno in casa – le luci chiaramente erano comandate da un timer, probabilmente un timer di poco prezzo preso in un negozietto. Lo schema era sempre lo stesso. Trudy doveva averlo impostato prima di andarsene.

Il posto era ancora suo – Luke questo lo sapeva. Swann aveva hackerato il suo conto in banca. C’erano dei pagamenti automatici per il mutuo, le tasse per il mantenimento dell’immobile e l’elettricità. Aveva pagato in anticipo due anni di tasse sull’immobile stimate.

Era scomparsa, ma l’appartamento c’era, che procedeva per conto suo come se non fosse accaduto nulla.

PerchГ© continuava ad andarci? Pensava che improvvisamente una notte sarebbe stata a casa? Pensava che i mesi passati si sarebbero cancellati da soli?

Si fermò per qualche secondo soltanto, distogliendo lo sguardo dal pick-up, immaginandoselo lì dietro, ricordandoselo nel momento in cui, qualche istante prima, l’aveva superato a piedi.

Era ampio, resistente, il tipo di furgone che si vedeva sui siti edili. I finestrini della cabina erano affumicati, rendendo impossibile vedere granché dell’interno. Anche così aveva la sensazione che ci fossero due ombre dietro quei finestrini. I fanali del furgone erano spenti quando prima lo aveva superato, ed erano ancora spenti – non c’erano state luci in avvicinamento ad avvertirlo. Quello che aveva tradito il furgone era stato il rumore. Riusciva a sentirne il motore brontolare.

C’erano un distributore di benzina e un negozietto sul fondo della collina. Le luci esterne erano accese, sopra alle pompe, ma il negozio sembrava essere chiuso. Luke si portò al centro della strada, verso la luce che lo chiamava.

Guardò alla sua sinistra e alla sua destra senza girare la testa. Su ogni lato erano parcheggiate auto costose una dietro l’altra contro al marciapiede in una linea continua. Era un quartiere affollato, e non c’erano molti parcheggi. Non c’era un modo ovvio di lasciare la strada per salire sul marciapiede.

ScattГІ.

Lo fece senza avvisaglie. Non accelerò gradualmente dalla camminata alla corsa. Un attimo stava camminando, e un battito di ciglia dopo stava correndo più veloce che poteva. Dietro di lui, il pick-up ruggì. Le ruote bruciarono le gomme sull’asfalto, lo stridio delle ruote che squarciava la notte silenziosa.

Luke si tuffò a destra, scivolando di testa sul cofano di una Lexus bianca. Scivolò giù dall’auto e ruzzolò sul marciapiede, atterrando sulla schiena, rotolando in posizione seduta mentre estraeva la Glock dalla fondina a spalla dentro la giacca, tutto in una mossa sola.

La Lexus cominciò a disintegrarsi dietro di lui. Il furgone si era fermato, e il finestrino del passeggero era stato abbassato. C’era un uomo con una maschera da sci che sparava da un fucile automatico con un soppressore di suono gigantesco. L’arma aveva attaccato sul fondo un caricatore a tamburo, probabilmente dodici dozzine di proiettili. Luke assorbì tutte quelle informazioni in un istante, prima che la mente cosciente ne fosse anche solo consapevole.

I finestrini della Lexus si infransero, le gomme scoppiarono e la macchina affondò a terra. TANK, TANK, TANK – i proiettili ne colpivano i pannelli esterni. Del fumo si alzò da sotto il cofano. L’uomo del furgone lo stava crivellando con la mitragliatrice.

Luke corse in avanti, abbassandosi. I proiettili lo seguirono, mandando in frantumi la macchina successiva come avevano fatto con la Lexus. Del vetro gli si sparpagliГІ addosso.

Partì l’allarme di una macchina, suonò per cinque secondi, poi si fermò quando i proiettili perforarono il veicolo e distrussero il sistema di allarme.

Luke continuò a correre, il fiato bollente nei polmoni. Raggiunse il distributore e scattò attraverso l’ampio spiazzo aperto. Le luci gettavano delle ombre inquietanti – le pompe sembravano mostri incombenti. Il pick-up sbandò nel parcheggio dietro di lui. Luke si voltò indietro e lo vide rimbalzare sul marciapiede e fare una curva stretta.

Corse giù per un’altra stradina, poi sfrecciò a sinistra in un vicolo. Era una vecchia strada di ciottoli. Incespicò sulla superficie ruvida e butterata. Il motore del furgone gridò, vicinissimo. Luke non guardò. Giunse un cigolante scricchiolio quando il furgone rimbalzò sui ciottoli.

Luke lo sentiva lì – il furgone si trovava un secondo solo dietro di lui.

Il cuore gli martellava nel petto. Non serviva a niente. Girò la testa e c’era il furgone, proprio dietro di lui. La massiccia griglia si fiondava in avanti, facendosi sempre più grande a mano a mano che si avvicinava. Sembrava un’immensa bocca sorridente. Il cofano del furgone era quasi alto quanto la sua testa.

Alla sinistra di Luke c’era un cassonetto dell’immondizia. Lo percepì, più che vederlo. Ci si tuffò dietro, cadendo sui ciottoli, atterrando malamente in un’alcova minuscola. L’impatto gli scosse le ossa, e lui si schiacciò contro al muro, tanto stretto quanto gli permetteva il suo corpo.

Un istante dopo, il pick-up caricò il cassonetto, mandandolo a sbattere contro il muro del vicolo. Il furgone passò, mancando appena Luke, trascinandosi dietro il cassonetto. Sbandò e si fermò nel vicolo quindici metri dopo l’alcova. Le luci dei freni brillarono di rosso. Il cassonetto era schiacciato tra la portiera del conducente e il muro.

Luke poteva riprendere l’iniziativa, ma per farlo doveva muoversi.

“Alzati,” disse.

Si trascinò in piedi, arma in mano, e incuneò il proprio corpo nell’alcova. Con due mani, mirò al lunotto posteriore del furgone.

BLAM, BLAM, BLAM, BLAM.

Il lunotto andò in pezzi. Il rumore dell’arma fu assordante. Riecheggiò giù per il vicolo e fuori nelle strade silenziose della città. Se fosse stato in cerca di attenzioni, e così era, ecco che sarebbero arrivate.

Le ruote del furgone urlarono e si triturarono sui ciottoli mentre il conducente cercava di liberarsi dal cassonetto.

Il passeggero – il tiratore – usò il calcio dell’arma per infrangere i resti del lunotto. Avrebbe tentato di sparare.

Perfetto.

BLAM.

Luke gli sparГІ, facendo centro in fronte.

L’uomo crollò, la testa a penzolare fuori dal lunotto, l’arma a sferragliare inutilmente sul pianale del pick-up.

Il furgone sbandГІ di lato, la griglia che scivolava lungo il muro, il lato del conducente che adesso era proprio davanti a Luke. Luke avrebbe preso anche lui, se avesse potuto, ma non con un colpo mortale. Lo avrebbe tenuto in vita perchГ© rispondesse a delle domande.

Il conducente era bravo – più del suo amico. Il suo finestrino era andato in frantumi con la collisione, ma lui si era accucciato. Luke non riusciva a vederlo.

BLAM, BLAM, BLAM.

Luke tirГІ tre colpi nella portiera del conducente. Il rumore fu vuoto, metallico, quando i proiettili la attraversarono. Il conducente urlГІ. Era stato colpito.

Improvvisamente il furgone sbandò verso destra, come un ladro di automobili che disegna ciambelle sulla neve. Il pianale oscillò e colpì il muro. Ma il furgone si era liberato dal cassonetto. Se il conducente ne fosse stato ancora in grado, era libero di scappare.

Luke mirГІ alla ruota posteriore sinistra. BLAM.

La ruota scoppiò, ma il furgone stridette e partì nel vicolo. Rimbalzò in strada, sbandò, e andò a sinistra. Sparito.

Nelle vicinanze, le sirene si stavano giГ  avvicinando. Luke riusciva a sentirle venire da diverse direzioni. RinfoderГІ la pistola e claudicГІ fuori dal vicolo, il ginocchio che giГ  si stava irrigidendo. Se lo era scorticato cadendo sui ciottoli.

Un’Interceptor della polizia di Washington ruggì, le luci che splendevano e gettavano assurde ombre azzurre contro gli edifici circostanti. Luke aveva già estratto il distintivo, il vecchio distintivo del defunto Special Response Team dell’FBI. Aveva ancora un anno di vita prima della scadenza. Sollevò le mani bene in alto, il distintivo nella mano destra.

“Agente federale!” urlò ai poliziotti che si precipitarono fuori dalla macchina ad armi spianate e puntate su di lui.

“A terra!” gli dissero.

Lui fece esattamente come avevano detto, movendosi lentamente e con attenzione, senza minacciare nessuno.

“Che sta succedendo qui?” disse uno dei poliziotti afferrando il distintivo dalla mano tesa di Luke.

Luke fece spallucce.

“Qualcuno sta cercando di uccidermi.”




CAPITOLO SETTE


10:20

Casa Bianca, Washington, DC



Era come un funerale di Stato, la grande apertura di un parcheggio di auto usate e lo show di un comico amatoriale tutto in una volta.

Susan Hopkins, la presidente degli Stati Uniti, con addosso un abito e uno scialle blu fatti apposta per l’occasione dalla stilista Etta Chang, guardò oltre il prato a sud i dignitari e giornalisti raccolti. Era un gruppo selezionato, e l’invito più difficile da ottenere in città nell’ultimo mese. In una soleggiata e brillante giornata autunnale, sotto il cielo azzurro, la Casa Bianca – uno dei più duraturi simboli d’America – era ricostruita e pronta all’uso.

Gli uomini dei servizi segreti torreggiavano dietro e davanti a Susan, levando linee di tiro – le sembrava quasi di essere perduta in una foresta di uomini alti. Washington, DC, la Virginia e il Maryland erano zone soggette a restrizione dello spazio aereo quella mattina. Se non si era atterrati entro le sette del mattino, si era sfortunati.

La cerimonia si stava allungando. Era cominciata appena dopo le nove, e si stava già dilungando oltre le dieci e mezza. Tra la processione militare d’apertura con il trombettiere che suonava il silenzio e il cavallo senza cavaliere in onore di Thomas Hayes, la liberazione di uno stormo di colombe bianche a simboleggiare i molti altri che quel giorno e quella notte erano morti, il sorvolo del jet da combattimento, il coro dei bambini e discorsi e benedizioni varie…

Ah sì, le benedizioni.

La casa ricostruita era stata benedetta, a turno, da un rabbino ortodosso di Philadelphia, un imam musulmano, l’arcivescovo cattolico di Washington, DC, il ministro dell’AME Zion Church di North Capitol Street e il famoso monaco buddista nonché attivista pacifista Thich Nhat Hanh.

L’alterco che era nato al momento della scelta dei dignitari religiosi – già quello da solo aveva amareggiato Susan per l’evento. Un rabbino ortodosso? Il gruppo delle donne per un giudaismo riformato aveva dato voce al proprio fastidio – avevano spinto per una rabbina donna. Un sunnita o uno sciita per l’imam – non li si potevano accontentare entrambi. Anzi, Kat Lopez li aveva fregati entrambi e aveva scelto un sufi.

I gruppi cattolici non erano entusiasti di Pierre. Il primo uomo degli Stati Uniti era gay? E sposato con una donna? Cani e gatti che giacevano insieme. Quella questione fu risolta quando Pierre decise di prendersi un permesso e guardare l’evento dal suo appartamento di San Francisco.

Pierre e le ragazze erano ampiamente scomparse dalla vita pubblica dallo scandalo. Era giusto tenere le ragazze lontane dai riflettori dopo tutto ciò che era accaduto, ma quello era un evento importante e Pierre non era neanche voluto venire. La cosa preoccupava un po’ Susan. In realtà, più di un po’. E, ovviamente, adesso gli attivisti per i diritti dei gay erano furiosi con lui per ciò che loro vedevano come un inchinarsi alle pressioni della Chiesa cattolica.

Sul podio Karen White, la nuova presidente della Camera, stava appena finendo il suo discorso. Karen era eccentrica, per usare un eufemismo – indossava un cappello con sopra un grosso girasole di carta. Il cappello era più appropriato per una caccia alle uova di Pasqua da bambini che per l’evento di quel giorno. Se Etta Chang lo avesse visto, sarebbe stata ora di un bel cambio di stile.

Le annotazioni di Karen erano state rapidi affondi contro i liberali al governo – grazie a Dio, perché alle elezioni speciali per ricostituire il Congresso decimato mancavano due settimane. Le campagne si erano trasformate in assurdi battibecchi pieni di odio – gli storici si divertivano ad andare sui notiziari della CNN e della FOX ad affermare che nel paese il discorso civile aveva raggiunto il suo più basso declino dai tempi della Guerra civile.

Ciò che a Karen White mancava in retorica offensiva sul fronte interno, riusciva a crearlo benissimo sul palco mondiale. Il suo discorso sembrava suggerire – col trasalimento di molti, nel pubblico – che la Casa Bianca fosse stata distrutta non da furfanti del movimento conservatore e dell’esercito degli USA, ma da agenti stranieri, probabilmente iraniani o russi. Durante un passaggio logicamente tortuoso, lo speciale emissario dell’Iran si era alzato in piedi e se n’era andato via, imbufalito, con al seguito due dei suoi diplomatici.

“Va tutto bene,” disse all’orecchio di Susan Kurt Kimball, il consigliere per la sicurezza nazionale. “Lo sanno tutti che Karen è un po’ bizzarra. Cioè, la guardi. Chiameremo qualcuno del dipartimento di Stato a sistemare le cose per loro.”

“Come?” chiese Susan.

Fece spallucce. “Non lo so. Ci inventeremo qualcosa.”

Sul palco, Kat aveva rivolto a Susan un cenno. Erano pronti per lei. Uscì sul palco mentre gli agenti dei servizi segreti si mettevano in posizione attorno a lei. Il podio era circondato su tre lati da vetro trasparente antiproiettile. Restò un attimo lì a esaminare la folla assemblata. Non era per nulla nervosa. Parlare con la gente era sempre stato uno dei suoi punti di forza.

“Buongiorno,” disse. La voce riecheggiò per tutto il prato.

“Buongiorno,” le urlò di rimando qualche simpaticone.

Si lanciò, a suo agio, nel discorso preparato. Era un buon discorso. Parlò col pubblico di sacrificio condiviso, e di perdita, e di resilienza. Disse della grandezza dell’esperimento americano – cosa che sapevano già. Disse del valore degli uomini che quella notte le avevano salvato la vita, e riconobbe Chuck Berg – che adesso era a capo del distaccamento della sicurezza di casa sua, e si trovava sul palco con lei – e Walter Brenna, che era un ospite d’onore della prima fila. Entrambi gli uomini sollevarono le mani e ricevettero un tumultuoso applauso.

Disse che si sarebbe trasferita nella Casa Bianca quello stesso giorno – il che portò a una standing ovation – e che li avrebbe accolti all’interno dopo le sue annotazioni per fare un giro e vedere che cosa aveva fatto del vecchio posto.

TerminГІ con una fiorettatura, facendo eco a quel grande eroe che era per lei, e per tutti, John Fitzgerald Kennedy.

“Quasi sessant’anni fa, John Fitzgerald Kennedy è stato eletto presidente. Il suo discorso inaugurale è uno dei più fantastici e citati mai tenuti. Tutti voi sapete che in quel discorso ci ha detto di chiederci non cosa il nostro paese può fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per il nostro paese. E sapete una cosa? C’è un’altra parte di quel discorso, meno conosciuta, che mi piace altrettanto. Sembra particolarmente appropriata agli eventi di oggi, e voglio lasciarvi con quelle parole. Ecco cos’ha detto Kennedy.”

Fece un respiro profondo, sentendo nella testa le pause che si era preso Kennedy. Voleva ripetere l’esatta formulazione.

“Facciamo sapere a ogni nazione,” disse, “che ci auguri il bene o il male… che pagheremo qualsiasi prezzo… ci addosseremo qualsiasi peso…”

Nella folla, l’esultanza era già cominciata. Lei agitò una mano, ma non servì. Avrebbero fatto così, e il suo lavoro adesso era andare incontro al gonfiarsi crescente della loro esplosione, in qualche modo prenderne le redini e portarlo fino al traguardo.

“Affronteremo qualsiasi avversità…” urlò.

“Sì!” urlò qualcuno, in qualche modo tagliando il rumore.

“Supporteremo qualsiasi amico,” disse Susan, e sollevò il pugno in aria. “E andremo contro ogni nemico… per assicurarci la sopravvivenza e il successo della libertà!”

La folla era salita in piedi. L’ovazione andò avanti.

“Questo promettiamo,” disse Susan. “E altro.” Fece un’altra pausa. “Grazie, amici. Grazie.”



* * *



L’interno dell’edificio le dava i brividi.

Susan si spostò per i corridoi con il suo contingente dei servizi segreti, Kat Lopez, e due assistenti che la seguivano. Il gruppo superò le porte dello Studio Ovale. Solo trovarsi lì su di lei aveva un effetto strano. Lo aveva già sentito, appena una settimana prima, quando per la prima volta le avevano fatto fare il giro della Casa Bianca rinnovata. C’era un che di surreale nella cosa.

Non era cambiato quasi niente. In parte si trattava di questo. Lo Studio Ovale sembrava lo stesso dell’ultima volta che l’aveva visto – il giorno in cui era stato attaccato e distrutto, il giorno in cui Thomas Hayes e più di trecento persone erano morte. Tre alte finestre, con le tende tirate, che ancora davano sul giardino delle rose. Vicino al centro dell’ufficio, si trovava un comodo salottino su di un lussuoso tappeto adornato con il sigillo del presidente. Persino la Resolute Desk – un dono vecchissimo del popolo britannico – era ancora lì, al suo solito posto.

Certo, non era la stessa scrivania. Era stata ricostruita a mano a partire dai disegni originali a un certo punto negli ultimi tre mesi in una falegnameria della campagna gallese. Ma era questo il punto per lei – tutto sembrava esattamente uguale. Era quasi come se il presidente Thomas Hayes – più alto di chiunque attorno a lui di almeno dieci, undici centimetri – potesse entrare in qualsiasi istante e rivolgerle il suo solito cipiglio.

Era traumatizzata? La innervosiva, quell’edificio?

Sapeva che avrebbe preferito vivere all’Osservatorio navale. Quella maestosa casa antica era stata casa sua negli ultimi cinque anni. Era luminosa, aperta, e ariosa. Lì si trovava a suo agio. In confronto la Casa Bianca – soprattutto la residenza – era scricchiolante, eccentrica, malinconica e piena di spifferi in inverno, con una pessima luce.

Era un posto grande, ma le stanze sembravano anguste. E c’era… qualcosa… in quel luogo. Sembrava di poter svoltare l’angolo e imbattersi in un fantasma. Un tempo pensava che sarebbe stato il fantasma di Lincoln o McKinley o persino Kennedy. Ma adesso sapeva che sarebbe stato Thomas Hayes.

Si sarebbe ritrasferita all’Osservatorio navale in un battito di ciglia – se solo non l’avesse ceduto. La sua nuova vicepresidente, Marybeth Horning, ci si sarebbe dovuta trasferire nei prossimi giorni. Sorrise quando pensò a Marybeth – la senatrice ultraliberale del Rhode Island – che il giorno dell’attentato a Mount Weather era in viaggio d’inchiesta sulle violazioni dei diritti civili in aziende agricole che producevano uova dell’Iowa. Marybeth era un’aizzatrice per i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, dell’ambiente, per tutto ciò di cui importava a Susan.

Elevarla al ruolo di vicepresidente in realtà era stata un’idea di Kat Lopez. Era tutto perfetto – Marybeth era una chiara esponente così di sinistra che nessuno a destra avrebbe voluto vedere Susan uccisa. Si sarebbero trovati col loro peggior incubo come presidente. E sotto le nuove regole dei servizi segreti, Susan e Marybeth non si sarebbero mai trovate nello stesso luogo nello stesso momento per il resto del mandato di Susan – da qui l’assenza di Marybeth ai festeggiamenti di oggi. Era un vero peccato, perché a Susan Marybeth piaceva.

Susan sospirò e guardò ancora lo studio. La sua mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato. Lei e Thomas si erano allontanati ormai da un paio di anni. A Susan non era importato granché. Si stava divertendo a essere la vicepresidente, e David Halstram – il capo di gabinetto di Thomas – si assicurava che l’agenda di lei rimanesse piena di eventi lontani dal presidente.

Però quel giorno David le aveva chiesto di prendere un aereo per recarsi al fianco del presidente. Gli indici di gradimento di Thomas erano precipitati in una voragine, e il presidente della Camera aveva appena richiesto il suo impeachment. Era sotto assedio, tutto perché non voleva entrare in guerra con l’Iran. Certo, lo speaker era Bill Ryan, uno dei leader del colpo di stato, che in quel momento si trovava in una prigione federale, a prepararsi per essere trasferito nel braccio della morte.

Ricordò lei e Thomas esaminare una mappa del Medio Oriente proprio in quell’ufficio. Non parlavano di niente, chiacchieravano solo di questo o di quello. Era solo un’occasione per una foto, non un vero e proprio meeting strategico.

Improvvisamente, si erano precipitati dentro due uomini.

“FBI!” aveva urlato uno dei due. “Ho un messaggio importante per il presidente.”

Uno degli uomini era l’agente Luke Stone.

La sua vita era cambiata in un istante, e da allora non era più tornata normale. La sua vita precedente poteva anche non tornare mai più, rifletté. Il suo matrimonio era quasi stato distrutto dallo scandalo. Sua figlia era stata rapita. Susan era invecchiata di dieci anni in sei mesi, mentre resisteva a un attacco terroristico o politico dopo l’altro.

Adesso doveva affrontare il sonno in quella vecchia casa piena di spifferi, da sola. Avevano speso un miliardo di dollari per rinnovare quel posto, e lei lì non voleva viverci. Mmm. Avrebbe dovuto parlarne con Kat, o con qualcuno.

“Susan?”

Alzò lo sguardo. Era Kurt Kimball. La sua apparizione improvvisa la riportò di colpo alla realtà. Kurt era alto e ampio, con una testa tonda e liscia come una palla da biliardo. Gli occhi erano luminosi e attenti. Era il ritratto della vitalità e della salute a cinquantatré anni. Era una di quelle persone che pensavano che i cinquanta fossero i nuovi trenta. Finché non era diventata presidente, Susan era stata d’accordo con lui. Adesso non ne era così sicura. Era lei stessa a poco meno di mezzo secolo. Se le cose continuavano così, per quando ci fosse arrivata i cinquanta sarebbero stati i nuovi sessanta.

“Ciao di nuovo, Kurt.”

“Susan, c’è l’agente Stone. Ieri notte ha parlato con Don Morris, in Colorado. Pensa di avere un’informazione che vogliamo sentire. Non ci ho ancora parlato, ma i miei dicono che è rimasto coinvolto in un incidente quando stamattina presto è tornato a Washington.”

“Un incidente? Che significa?” Non suonava bene. Però, d’altronde, quando mai l’agente Stone non rimaneva coinvolto in un incidente?

“C’è stata una sparatoria a Georgetown. Due uomini in un furgone apparentemente hanno cercato di ucciderlo. Luke ne ha ucciso uno. L’altro è fuggito.”

Susan fissò Kurt. “La cosa è legata a Don Morris?”

Kurt scosse la testa. “Non lo sappiamo. Però è accaduto a due isolati dall’appartamento di Trudy Wellington. La Wellington è scomparsa, come sa, ma pare che Stone sia andato al suo appartamento non appena atterrato dopo la visita a Morris. È tutto molto… inusuale.”

Susan fece un respiro profondo. Stone le aveva salvato la vita più di una volta. Aveva salvato sua figlia dai rapitori. Aveva salvato infinite vite durante la crisi del virus Ebola, e durante la crisi con la Corea del Nord. Aveva fatto al mondo un favore e aveva assassinato il dittatore della Corea del Nord, mentre era lì. Era una risorsa inestimabile per l’amministrazione di Susan. Inoltre, era l’arma segreta di Susan. Ma era anche instabile, era violento, e sembrava farsi coinvolgere da cose da cui non si sarebbe dovuto far coinvolgere.

“Comunque,” disse Kurt. “Lo abbiamo qui, e deve fare rapporto. Penso che dovremmo fare subito il rodaggio della nuova sala operativa e chiamarlo.”

Susan annuì. Era quasi un sollievo aver qualcosa in cui affondare i denti. La sala operativa lì alla Casa Bianca era uno spazio dedicato, nulla in confronto alla sala conferenze adattata che avevano usato all’Osservatorio navale. Era un centro di comando totalmente rinnovato e aggiornato, con le ultime stregonerie in fatto di alta tecnologia. Avrebbe espanso tremendamente le loro capacità strategiche – o così le avevano detto.

L’unico problema? Era sottoterra, e a Susan piacevano le finestre.

“Dammi qualche momento per cambiarmi, okay?” Susan indicò l’elegante abito di marca unico nel suo genere che indossava. “Non so se questa cosa va bene per una riunione dell’intelligence.”

Kurt sorrise. Fece un po’ scena, e la squadrò dall’alto in basso.

“Na. Suvvia. Ha un aspetto magnifico. La gente resterà colpita – dritta dalla consacrazione e subito al lavoro.”



* * *



Luke scese in ascensore con una folla di gente in giacca e cravatta, giù alla sala operativa. Era stanco – aveva trascorso due ore parlando con i poliziotti di Washington, DC, poi si era fatto qualche ora di sonno intermittente. Si era perso completamente la cerimonia di consacrazione.

Cose come la ricostruzione della Casa Bianca e la sua riapertura non erano proprio nella sua testa. Aveva appena fatto caso al posto, o alle folle che facevano ooh e aah dappertutto. Era perso in una foresta di pensieri oscuri – su se stesso e la sua vita, su Becca e Gunner, e su Don Morris, le sue scelte e alla fine a cui era giunto. Luke aveva anche ucciso un uomo la notte precedente, e ancora non aveva idea del perché.

L’ascensore si aprì nella sala operativa a forma di uovo. Era più piccola e più angusta dell’ex sala conferenze che avevano usato all’Osservatorio navale. Era anche meno arrangiata, meno imbastita alla meglio. Quel luogo sembrava il modulo di comando di una nave spaziale di Hollywood. Era organizzato per il massimo uso dello spazio, con ampi schermi incassati nei muri ogni qualche metro, e uno schermo di proiezione gigantesco sul muro in fondo alla fine del tavolo. Tablet e microfoni a scomparsa sorgevano da slot che uscivano dal tavolo da conferenze – potevano essere rimessi all’interno del tavolo se il partecipante voleva usare un dispositivo proprio.

Ciascuna sfarzosa sedia in pelle al tavolo era occupata – per lo più da menti di mezz’età e sovrappeso. I posti lungo i muri erano pieni di giovani assistenti e assistenti persino più giovani, la maggior parte dei quali scriveva messaggi sui tablet, o parlava al telefono.

Susan Hopkins sedeva su una sedia al posto a capotavola più vicino della tavola oblunga. All’altro capo se ne stava in piedi Kurt Kimball, il consigliere per la sicurezza nazionale di Susan. I soliti sospetti, spaparanzati, occupavano i posti tra di loro.

Kurt notò Luke entrare e batté le grosse mani. Fece il suono di un pesante libro che veniva lasciato cadere su un pavimento di pietra. “Ordine, tutti quanti! In ordine, per favore.”

Il luogo si calmГІ. Qualche assistente continuГІ a parlare lungo la parete.

Kurt battГ© di nuovo le mani.

CLAP. CLAP.

Nella stanza si fece un silenzio di morte.

“Salve, Kurt,” disse Luke. “Mi piace il vostro nuovo centro di comando.”

Kurt annuì. “Agente Stone.”

Susan si voltò verso Luke e si strinsero le mani. La grossa mano di Luke ingoiava la sua, minuscola. “Signora presidente,” disse. “Bello rivederti.”

“Benvenuto, Luke,” disse. “Che cos’hai per noi?”

Guardò Kurt. “È pronto per il mio rapporto?”

Kurt si strinse nelle spalle. “È per questo che siamo qua. Se non fosse per lei, saremmo tutti di sopra a goderci i festeggiamenti.”

Luke annuì. Era stata una giornata lunga, ed era ancora presto. Voleva finire quella cosa e andarsene nella casa in campagna che una volta aveva condiviso con Becca. In quel momento era tutto troppo, e ciò che voleva di più era fare un pisolino. Dormire sul divano, e magari dopo, nel tardo pomeriggio, mettersi seduto fuori con un caffè a guardare il sole tramontare sull’acqua. Aveva molto a cui pensare, e molto da organizzare. Un’immagine di Gunner gli apparve nella mente.

Tutto gli occhi erano su di lui. Fece un respiro profondo. RipetГ© quello che gli aveva detto Don. Dei terroristi islamici avrebbero rubato delle armi nucleari da una base aerea in Belgio.

Un uomo alto e massiccio dai capelli biondi alzò una mano. “Agente Stone?”

“Sì.”

“Haley Lawrence. Segretario della difesa.”

Luke lo sapeva. Ma fino a quel momento, se l’era dimenticato.

“Signor segretario,” disse. “Che cosa posso fare per lei?”

L’uomo gli rivolse un leggero sorriso, quasi una smorfia. “La prego di condividere con noi come pensa che Don Morris abbia ottenuto le sue informazioni. Si trova in un complesso federale di alta sicurezza, la sicurezza massima che abbiamo al momento, tenuto in isolamento nella sua cella ventitré ore al giorno, e non ha contatto diretto con nessuno eccetto le guardie.”

Luke sorrise. “Penso che questa sia una domanda a cui dovrebbero rispondere le guardie.”

Si sparsero per la stanza delle risate soffocate.

“Conosco Don Morris da molto tempo,” disse Luke. “Probabilmente è una delle persone più ingegnose in vita negli Stati Uniti in questo momento. Non ho dubbi che riceva delle informazioni, persino nella sua ubicazione corrente. Sono informazioni accurate? Non ne ho idea, e nemmeno lui. Non ha modo di confermarle, né di screditarle. Immagino che questo sia lavoro nostro.”

Rivolse a Kurt uno sguardo di traverso. “Questi sono tutti i dettagli che ho. Qualche idea?”

Kurt fece un attimo di pausa, poi annuì. “Certo. Sarà un po’ all’impronta, ma per lo più accurato. Ho pensato molto al Belgio negli ultimi anni, per ovvie ragioni.” Si voltò verso un’assistente che si trovava in piedi dietro di lui. “Amy, puoi darci una mappa del Belgio? Inserisci Molenbeek e Kleine Brogel, se non ti spiace.”

La giovane digitГІ sul tablet, mentre un altro assistente accendeva il monitor principale dietro a Kurt. Trascorse qualche secondo. Il monitor passГІ per alcune schermate di caricamento, poi mostrГІ una schermata blu. RicominciГІ un basso mormorio.

Kurt guardò l’assistente. Lei gli fece un cenno col capo, e poi Kurt guardò la presidente.

“Susan, pronta?”

“Pronta quando lo sei tu.”

Sullo schermo dietro di lui apparve una mappa dell’Europa. Rapidamente zoomò per concentrarsi sull’Europa occidentale, e poi sul Belgio.

“Okay. Dietro di me vedete una mappa del Belgio. Ci sono due location in quel paese sulle quali voglio richiamare la vostra attenzione. La prima è la capitale, Bruxelles.”

Dietro di lui, la mappa zoomò di nuovo. Adesso mostrava il fitto reticolo di una città, con un anello di strade che la circondava. La mappa si spostò sull’angolo superiore sinistro, e su molte fotografie di strade di ciottoli, un edificio governativo del diciannovesimo secolo e un imponente ponte ornato su un canale.

Si voltò verso l’assistente. “Dammi Molenbeek, per piacere.”

La mappa zoomò di nuovo, e apparvero altre foto delle strade. In una, un gruppo di uomini barbuti marciava con uno striscione bianco, i pugni che battevano su nell’aria. In cima allo striscione si vedevano dei caratteri arabi scritti in nero. Sotto c’era l’evidente traduzione:

No alla democrazia!

“Molenbeek è un quartiere di circa novantacinquemila persone. È la sezione più densamente popolata di Bruxelles, e una parte arriva ad avere fino all’ottanta per cento di musulmani, per lo più di discendenza turca e marocchina. È un ricettacolo di estremismo. Le armi usate nell’attentato alla rivista Charlie Hebdo erano prima state depositate a Molenbeek. Gli attentati terroristici del 2015 a Parigi erano stati pianificati lì, e i perpetratori di quei crimini sono tutti uomini cresciuti e vissuti a Molenbeek.”

Kurt guardò la stanza. “In poche parole, se in Europa si stanno pianificando attentati terroristici, e possiamo presumere tranquillamene che così sia, c’è una buonissima probabilità che i piani si stiano facendo a Molenbeek. Tutto chiaro su questo?”

Per la stanza passГІ un mormorio di assenso.

“Okay, vediamo Kleine Brogel.”

Sullo schermo la mappa allargГІ la panoramica, si spostГІ sulla destra, a poca distanza, poi zoomГІ di nuovo. Luke riusciva a riconoscere le piste e le costruzioni di un aerodromo rurale non lontano da una cittadina.

“La base aerea di Kleine Brogel,” disse Kurt. “È un aerodromo militare belga localizzato a circa sessanta miglia a est di Bruxelles. Il villaggio che vedete lì è il comune di Kleine Brogel, da cui il nome della base. La base è la dimora della decima ala tattica belga. Ci fanno volare F-16 Falcon, jet da combattimento supersonici, che, tra le altre cose, possono sganciare bombe nucleari B61.”

Sullo schermo la mappa scomparve, e si materializzò un’immagine. Era quella di una bomba a forma di missile montata su un carrello provvisto di ruote e parcheggiata al di sotto della fusoliera di un jet da combattimento. La bomba era lunga e liscia, grigia con la punta nera.

“Qui vedete una B61,” disse Kurt. “Lunga neanche tre metri e mezzo, circa settantasei centimetri di diametro, e con un peso di circa trecentodiciassette chili. È un’arma a rendimento variabile che può mettere fino a trecentoquaranta chilotoni su un obiettivo – approssimativamente venti volte la grandezza dell’esplosione di Hiroshima. Paragonate questo rendimento ai megatoni dei grossi missili balistici, e potete vedere che la B61 è una piccola testata tattica. È progettata per essere trasportata da aeroplani veloci, come l’F-16. Noterete la forma affusolata – fatta così perché possa resistere alle velocità che i suoi veicoli di trasporto possono raggiungere. Queste sono bombe fatte in America, e le condividiamo con il Belgio come parte degli accordi NATO.”

“Quindi le bombe si trovano lì?” disse Susan.

Kurt annuì. “Sì. Direi una trentina. Posso recuperarle la cifra esatta, se ne abbiamo bisogno.”

PassГІ un altro mormorio tra la folla raccolta.

Kurt sollevò la mano. “La faccenda migliora. Kleine Brogel in Belgio è una questione politica. Molti belgi odiano il fatto che lì ci siano le bombe, e le vogliono fuori dal paese. Nel 2009 un gruppo di attivisti pacifisti belgi ha deciso di mostrare a tutti quanto siano poco sicure le bombe lì. Hanno violato la sicurezza della base.”

Sullo schermo riapparve la mappa. Kurt indicò una zona lungo il margine della base. “A sud dell’aerodromo ci sono delle fattorie casearie. Gli attivisti hanno attraversato a piedi la terra della fattoria, poi hanno scavalcato la recinzione. Hanno vagato per la base per almeno quarantacinque minuti prima che qualcuno si accorgesse della loro presenza. Quando alla fine sono stati intercettati – da un aviatore belga con un fucile scarico, tra l’altro – erano appena fuori dal bunker dove erano immagazzinate alcune delle bombe. Avevano già dipinto con gli spray degli slogan sul bunker e affisso alcuni adesivi.”

Nella stanza esplose di nuovo il chiacchiericcio, piГ№ forte e piГ№ pronunciato stavolta.

“Okay, okay. È stata una seria distrazione da parte della sicurezza. Ma prima che ci facciamo prendere, riconosciamo un paio di cose. Per dirne una, i bunker erano ben chiusi – non c’era pericolo che gli attivisti entrassero. In più le bombe sono accatastate in delle camere sotterranee – anche se gli attivisti in qualche modo fossero riusciti a entrare, non sarebbero stati in grado di azionare gli ascensori idraulici per portare le bombe alla superficie. Gli attivisti erano a piedi, quindi anche se fossero riusciti ad azionare gli ascensori, non avrebbero fatto molta strada con un’arma di trecentodiciassette chili.”

“Quindi, con tutto ciò in mente, qual è la sua stima del livello di rischio?” disse Haley Lawrence.

Kurt fece una lunga pausa. Parve fissare qualcosa di lontanissimo, per un momento. Per Luke fu come se la mente di Kurt fosse un calcolatore, che attualmente attaccava numeri ai vari elementi che aveva appena descritto, poi li aggiungeva, sottraeva, moltiplicava e divideva.

“Alto,” disse.

“Alto?”

Kurt annuì. “Sì, certo. È una minaccia di livello alto. È possibile che un gruppo stia progettando il furto di una bomba da Kleine Brogel? Sicuramente. Non è la prima volta che sentiamo quest’idea – di tanto in tanto sorge nelle chiacchiere delle reti terroristiche raccolte dall’NSA e dal Pentagono. Una cellula terroristica a Bruxelles potrebbe avere un contatto o dei contatti alla base aerea che possono aiutarla – anzi, questo è uno scenario molto probabile. Sì, le bombe non sono operative senza i codici nucleari, e sì, devono essere sganciate da velivoli supersonici. Ma se gli iraniani vogliono le bombe solo per un processo di reverse engineering, o anche solo per analizzarle a fondo per il materiale nucleare? I militanti di Molenbeek tendono a essere sunniti, e loro l’Iran lo odiano. I nostri militanti potrebbero essere mercenari, disposti a farsi assumere dall’offerente più generoso.

“Oppure considerate questo,” proseguì Kurt. “L’aviazione somala ha una manciata di jet supersonici obsoleti. Per la maggior parte sono in rovina, ma io scommetto che uno o due possono ancora alzarsi in volo. Il governo somalo è debole, sotto costante attacco dall’Islam radicale, e vacilla sull’orlo del collasso. E se i militanti islamisti sequestrassero uno di quei velivoli, ci montassero una bomba e facessero precipitare l’intero aereo in un attentato nucleare suicida?”

“Non hai appena detto che le bombe senza i codici non funzionerebbero?” disse Susan.

Kurt fece spallucce. “I codici nucleari sono tra i criptaggi più avanzati del pianeta. A quel che sappiamo noi, non sono mai stati violati, persi, o rubati. Ma ciò non significa che non accadrà. Nel peggior scenario prevedibile possibile, io direi che la supposizione più sicura è che un giorno i codici verranno violati, se non è già accaduto.”

“Allora che cosa suggerisci di fare?”

Kurt non esitò. “Rimpolpare la sicurezza alla base aerea di Kleine Brogel. Farlo immediatamente. Lì abbiamo delle truppe, ma sono in costante stato di tensione con i belgi. Per avere un significativo aumento della sicurezza, dovremo calpestare qualche piede. Io riesaminerei anche le misure di sicurezza in altre basi NATO in cui sono tenute armi nucleari americane. Penso che scopriremo che quelle sono in condizioni piuttosto buone. Per quanto riguarda il lassismo nella sicurezza, i belgi esagerano proprio.

“Infine, farei una cosa che voglio fare da un po’ – mettere qualche operativo delle operazioni speciali sul campo a Bruxelles, nello specifico a Molenbeek. Fargli ficcare il naso qua e là e fargli fare qualche domanda. Questo è il tipo di cosa che i belgi dovrebbero fare con regolarità, ma non lo fanno. Non necessariamente deve essere un’operazione segreta – potrebbe essere anche meglio, in caso contrario. Mandarci gli agenti giusti, agenti che normalmente non accettano un no come risposta, e che facciano una bella pressione su un po’ di gente.”

Quasi esausto, Luke ascoltava solo a metГ . Stava piГ№ che altro cercando di reggere fino alla fine della riunione. Lentamente, divenne consapevole che molte delle persone nella stanza lo stavano fissando.

SollevГІ i palmi delle mani e si appoggiГІ allo schienale.

“Grazie,” disse, “ma no.”



* * *



“Allora, chi sta cercando di ucciderti?” chiese Susan.

Luke sedeva su una sedia in pelle dall’alto schienale nel salottino dello Studio Ovale. Sotto ai suoi piedi si trovava il sigillo presidenziale degli Stati Uniti. L’ultima volta che era stato lì, i servizi segreti lo avevano messo faccia in giù contro a quel sigillo. Però, ovviamente, era un altro tappeto – anche se sembrava identica, quella era una stanza totalmente nuova. L’altra era stata distrutta. Per un attimo se l’era dimenticato.

Cavolo se era stanco.

Un assistente aveva portato a Luke del caffè in una tazza termica. Forse l’avrebbe aiutato a svegliarsi. Lo sorseggiò – il caffè della presidente era sempre buono.

“Non lo so,” disse. “L’ultima che ho sentito è che stavano analizzando del DNA e che stavano facendo dei test delle impronte sul morto.”

Luke studiò il viso di Susan. Era invecchiata. Le rughe sulla sua pelle si erano fatte più profonde ed erano diventate grinze. La pelle stessa non era fissa e fiorente. In qualche modo aveva mantenuto la sua bellezza adolescenziale fino alla mezza età, ma in sei mesi da presidente il tempo l’aveva raggiunta.

Luke pensò al giovanile Abramo Lincoln di mezza età che diventava presidente, un uomo così energico e fisicamente forte da essere rinomato per le sue imprese di forza da salotto. Quattro anni dopo, appena prima di essere assassinato, lo stress della Guerra civile lo aveva trasformato in un fragile e appassito vecchietto.

Susan era ancora bella, ma adesso era diverso. Sembrava quasi segnata da ciò che aveva vissuto. Si chiese che cosa ne pensasse lei, o se se ne fosse già accorta. Poi si rispose da solo – certo che se n’era accorta. Era un’ex top model. Probabilmente aveva notato i più piccoli cambiamenti nel suo aspetto. Per la prima volta, notò il vestito che indossava. Era blu, molto elegante, e le cadeva perfettamente sulla figura. La scollatura era increspata – però leggermente.

“Ehi, bel vestito,” disse.

Lei gli fece un gesto di finto sdegno. “Questo vecchio abito? È solo una cosuccia che mi sono messa su. Lo sapevi che avevamo una cerimonia oggi, no?”

Luke annuì. Lo sapeva. “È fantastico,” disse. “Che abbiano rimesso a posto questo luogo esattamente com’era prima.”

“È un po’ inquietante, se lo chiedi a me,” disse Susan. Si guardò intorno nella stanza dall’alto soffitto. “Ho vissuto all’Osservatorio navale per cinque anni. Adoro quella casa. Non mi dispiacerebbe vivere lì per il resto della vita. Mi ci vorrà un po’ per abituarmi a questo posto.”

Caddero nel silenzio. Luke era lì semplicemente per portare i suoi omaggi. Entro un altro minuto le avrebbe chiesto un’auto, o preferibilmente un elicottero, che lo portasse a Eastern Shore.

“Allora, tu che ne pensi?” disse lei.

“Che cosa ne penso? Di cosa?”

“Della riunione che abbiamo appena fatto.”

Luke sbadigliò. Era stanco. “Non so che cosa pensare. Abbiamo delle armi nucleari in Europa? Sì. Sono vulnerabili? Sembra che potrebbero essere più sicure di quello che sono. Oltre a questo…”

Si fermГІ.

“Ci andrai?” disse lei.

Luke quasi rise. “Non ti servo in Belgio, Susan. Metti un altro distaccamento della sicurezza nella base, preferibilmente degli americani, e preferibilmente con armi cariche addosso. Dovrebbe bastare.”

Susan scosse il capo. “Se si tratta di una minaccia credibile, dovremmo andare alla fonte. Senti, con i belgi ci siamo fatti piedino per troppo tempo. Ci sono stati troppi attentati saltati fuori da Bruxelles, e io vorrei spezzare quelle reti. È inaccettabile che dopo gli attentati di Parigi non abbiano isolato tutto il quartiere di Molenbeek. A volte mi chiedo da che parte stiano.”

Luke alzò le mani. “Susan…”

“Luke,” disse. “Mi serve che lo faccia tu. C’è una cosa di cui nella riunione non si è parlato. Rende il tutto molto più urgente di quanto potresti pensare. Kurt lo sa, io lo so, ma nessun altro che era presente lo sa.”

“Che cosa?”

Esitò. “Luke…”

“Susan, mi hai chiamato ieri e mi hai chiesto di prendere un aereo per il Colorado con due ore di preavviso. Io ho fatto quello che mi hai chiesto. Adesso vuoi che vada in Belgio. Dici che è importante, ma non vuoi dirmi perché. Lo sai che mia moglie ha il cancro? Te lo dico solo perché tu sappia esattamente che cosa mi stai chiedendo di fare.”

Per un secondo, pensò che le avrebbe detto dell’altro, che forse le avrebbe detto tutto. Lui e sua moglie si erano lasciati. Lei apparteneva a una famiglia benestante, ma Luke non aveva voluto soldi. Voleva solo vedere suo figlio con regolarità, e Becca stava minacciando la cosa. Si stava preparando a una battaglia per la custodia, ma adesso, improvvisamente, aveva il cancro. Probabilmente sarebbe morta. E voleva ancora combattere. L’intera cosa aveva messo Luke a terra. Non aveva idea di cosa fare né di dove girarsi. Si sentiva completamente smarrito.

“Luke, mi dispiace molto.”

“Grazie. È dura. Avevamo molti problemi, e adesso questo.”

Lo fissava direttamente negli occhi. “Se può essere di qualche aiuto, ti capisco. I miei genitori sono morti quando ero giovane. Mio marito sembra essere uscito dal nostro matrimonio, ed è diventato un recluso. Non gliene faccio neanche una colpa. Chi ne vorrebbe mai ancora, di ciò che gli hanno fatto passare? Però si è preso le mie ragazze. Lo so com’è sentirsi soli – immagino che sia questo che sto dicendo.”

Luke rimase sorpreso dal fatto che si fosse aperta così con lui. Gli fece capire quanto si fidasse di lui, e gli fece venire ancor più voglia di aiutarla.

“Okay,” disse Luke. “Allora dimmi perché è così importante.”

“C’è stata una violazione dei dati al dipartimento dell’energia. Nessuno ne conosce la portata ancora, se è stato un incidente o una cosa pianificata. Nessuno sa niente. Però molte informazioni sono sparite, inclusi migliaia di codici nucleari datati. Nessuno può neanche dire se la cosa abbia importanza – funzionerebbero ancora? Ci vorrà del tempo per risolvere la cosa, ma nel frattempo l’ultima cosa che possiamo permetterci è perdere un’arma nucleare.”

Luke si posò allo schienale della sedia. Sarebbe andato. Con un po’ di fortuna, sarebbe andato laggiù, avrebbe sbattuto l’una contro l’altra un paio di teste, stretto i protocolli di sicurezza, e sarebbe stato di ritorno in un paio di giorni. Con l’occhio della mente, vide Gunner nel giardino sul retro a fare qualche canestro.

Da solo.

“Okay,” disse Luke. “Mi servirà la mia squadra. Ed Newsam, Mark Swann. E mi manca un membro. Mi serve un agente addetto alle informazioni per rimpiazzare Trudy Wellington. Qualcuno di bravo.”

Susan annuì e lasciò andare un sorriso di gratitudine.

“Tutto ciò che ti serve.”




CAPITOLO OTTO


17:15 (ora legale orientale)

I cieli sopra l’oceano Atlantico



“Siamo pronti, ragazzi?”

Il Learjet a sei posti sfrecciava a nordest attraverso il cielo del pomeriggio. Il jet era blu con il sigillo dei servizi segreti sul fianco. Dietro, il sole cominciava a tramontare. Luke guardò fuori dal finestrino, a oriente. Era già buio davanti a loro – era tardo autunno, e le giornate si stavano accorciando. Sotto, lontano, l’oceano era vasto, infinito e verde profondo.

Luke usava il suo tipico gergo per caricarsi, ma era una semplice ripetizione meccanica. Non la sentiva. Era sveglio da troppo tempo. Aveva troppo peso addosso. E aveva accettato un lavoro che probabilmente non avrebbe dovuto accettare.

Lui e la sua squadra usavano i quattro posti passeggero anteriori come zona riunione. Avevano sistemato i bagagli, e le attrezzature, nei sedili sul fondo.

Sul sedile dall’altra parte del corridoio rispetto a lui sedeva il grosso Ed Newsam, in pantaloni cargo cachi, t-shirt dalle maniche lunghe e giacca leggera. Si buttò gli occhiali da sole sul naso, contro il sole che si diffondeva dal suo finestrino. Quando era rilassato, come sembrava essere in quel momento, tutta la tensione muscolare lasciava il corpo forzuto e super atletico di Ed. Era come una gomma piatta stesa sul sedile. Ed era alla armi e tattiche, e Luke raramente aveva incontrato un uomo più qualificato – lo stesso Ed era l’arma più devastante che si potesse chiedere.

A sinistra di Luke e di fronte a lui, c’era Mark Swann. Era alto e magro, con lunghi capelli biondo rossiccio raccolti in una coda di cavallo e costosi occhiali dalla montatura nera rettangolare – Calvin Klein. Allungava le lunghe gambe nel corridoio. Indossava un vecchio paio di jeans sbiaditi e un paio di grossi stivali neri da combattimento Dr. Martens. Gli stivali fecero sorridere Luke – quell’uomo non aveva mai visto un solo minuto di combattimento vero in vita sua, non che Luke lo volesse. Swann era dei sistemi informatici – uno spiritoso ex hacker che era stato beccato e che era entrato nel governo per evitare una lunga condanna in prigione.

Swann e Newsam erano tornati dal Grand Canyon un paio di giorni prima – dicevano che non era lo stesso senza Luke e Gunner.

“A fare da babysitter a delle testate nucleari obsolete?” disse adesso Swann. “Immagino di essere pronto.”




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